Apparenti inattualità
Come sappiamo, il nostro vocabolario quotidiano è formato da poche parole. Ne usiamo – se va bene – al massimo 200, contro i milioni di parole che la nostra bellissima lingua ci consente. Tra le 200 parole, ve n’è una che usiamo molto spesso: è la parola “mondo”. Che cosa intendiamo noi per “mondo”? Rispondiamo a questa domanda ricorrendo ad apparenti inattualità.
“Mondo” è una parola che troviamo molte volte nel Vangelo. Nel Vangelo di Luca (21, 12-19), Gesù si riferisce al mondo, quando dice: «Metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e a governatori, a causa del mio nome. Questo vi darà occasione di rendere testimonianza. Mettetevi bene in mente di non preparare prima la vostra difesa: io vi darò lingua e sapienza, a cui tutti i vostri avversari non potranno resistere, né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e metteranno a morte alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo perirà. Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime».
Afferma ancora Gesù: «Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia. Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra. Ma tutto questo vi faranno a causa del mio nome, perchè non conoscono colui che mi ha mandato».
L’affermazione di Gesù è netta e chiara: tra Lui e il mondo, inteso quale regno del peccato, non esiste alcuna possibilità di accordo: «Coloro che vivono nel peccato, odiano la luce» (Gv 3, 19-20).
Dice San Gregorio Magno: «L’inimicizia degli uomini malvagi torna a lode della nostra vita, perché dimostra che abbiamo in noi almeno qualcosa di onesto, dal momento che riusciamo sgraditi a coloro che non amano Dio: nessuno può, nel medesimo tempo, risultare accetto a Dio e ai nemici di lui. Rivela di non essere amico di Dio chi cerca di compiacere coloro che gli resistono: così come chi si sottomette alla verità, lotterà contro tutto quello che vi si oppone».
Nella sua straziante preghiera sacerdotale, contenuta nel Vangelo di Giovanni (17, 1-25), Gesù usa per diciotto volte la parola mondo, in tre accezioni. Nella prima, mondo sta per universo creato, per esempio nell’espressione «prima che il mondo fosse». Nella seconda, mondo indica l’umanità destinataria della misericordia di Dio, in attesa della salvezza, per esempio l’espressione «perché il mondo creda che tu mi hai mandato». C’è, poi, un’ultima accezione. È contenuta in questi due passi (17, 6-11):
«Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me, ed essi hanno osservato la tua parola. Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro. Essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscite da te e hanno creduto che tu mi hai mandato. Io prego per loro, non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi».
Commenta il cardinale Giacomo Biffi in Pecore e pastori: «Questa terza accezione dev’essere ben considerata, senza indulgere ad attenuazioni o magari a censure ideologiche. Il termine “mondo” evoca un’oscura opposizione all’amore fattivo di Dio per le sue creature; un’opposizione che resterà sempre operante e malefica fino alla venuta gloriosa del Signore. È quindi una realtà in aperto contrasto con l’iniziativa divina di riscatto e di elevazione dell’uomo; una realtà irrimediabilmente ottusa, incapace di accogliere il mistero della giustizia, della misericordia, della paternità del Creatore: “Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto” (17, 25). È dunque qualcosa di irredimibile, tanto che il Salvatore di tutti e di tutto può tranquillamente affermare: “Io non prego per il mondo”. Non ha nulla in comune con Cristo, e perciò non può avere nulla in comune con quelli che sono di Cristo, poiché tutto è avvolto in un unico odio spaventoso: “Il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo” (17, 16). Essere “nel mondo” ma non “del mondo”: è il dramma del “piccolo gregge”, che è fatalmente sempre alle prese con questo enigma di malvagità, ma deve evitare di avere con esso la minima consonanza; ed è anche l’implorazione più accorata che si eleva dal cuore del nostro unico vero Pastore: “Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno” (17, 15)».
Aggiunge il cardinale Biffi: «Il “mondo” come umanità che attende di essere raggiunta dall’amore salvifico del Padre (e quindi ogni uomo) ci induce ad avere instancabilmente nei suoi confronti ogni simpatica attenzione e ogni generosa apertura. Invece il pensiero dell’esistenza del “mondo” come antitesi a ogni salvezza scoraggerà ogni dialogo spensierato con le ideologie deliberatamente anticristiane, con l’intrinseca cultura della negazione e del niente, con i programmi spregiudicati e astuti di soffocare la voce e la libertà della Chiesa».
Quale deve essere, quindi, in base all’insegnamento di Cristo, l’atteggiamento nei confronti del mondo del cristiano, della gerarchia ecclesiastico e dello stesso Papa?
Riceviamo una risposta da uno degli scritti di un grande mistico del Novecento, Don Divo Barsotti, che scrive: «Gesù è nato, è morto e il mondo è rimasto quello che era. Dov’è dunque la redenzione che noi predichiamo compiuta dal Cristo? Rimane il peccato, ma in questo mondo, segreta ma reale, è la presenza di Dio. (…). Però sul piano dell’esperienza storica, biologica, psicologica e sociale, nulla è avvenuto di assolutamente nuovo: si moriva prima del Cristo, si muore ancora dopo il Cristo; prima del Cristo vi era violenza, turbamento e guerra, altrettanto oggi. Ma l’uomo sa di essere figlio di Dio. Abbiamo noi il coraggio di credere, di affermare che qui è il Cristianesimo e non in vane promesse che non potranno mai essere adempiute? È inutile parlare di pace finché esiste il peccato. Se dal peccato sono derivati tutti i mali, è evidente che senza l’esclusione del peccato non potranno essere eliminati. Chi salva l’uomo dal peccato? Lo salva forse l’Islam o forse l’Ebraismo o forse il Protestantesimo o forse l’Induismo o il Buddismo? O la pace e la fratellanza che possono dare il mondo? Solo la Croce di Cristo salva dal peccato. Bisogna stare attenti a non illudere il mondo per quello che Dio non ha promesso. Dobbiamo essere più modesti e non cercare di convincere Dio a fare la nostra volontà. Non è vero che l’uomo potrà liberare, anche attraverso gli anni, l’umanità dai suoi mali».
Queste parole di Barsotti significano che in base all’insegnamento di Cristo, la Chiesa non deve inseguire i mali del mondo, prodotti dal peccato originale e dal Maligno, che è il suo principe. Chi è povero non si salva per la sua condizione di povero. Chi emigra non si salva per la condizione di migrante. IL MESSAGGIO PROFETICO DELLA CHIESA STA TUTTO NELL’OFFERTA DELLA SALVEZZA PROPOSTA DA CRISTO, CHE SI E’ LASCIATO PERCUOTERE, SEVIZIARE, METTERE IN CROCE DA PARTE DEL MONDO, CHE GLI E’ STATO NEMICO, PER REDIMERE E CONVERTIRE LE ANIME, PER NON LASCIARLE MARCIRE NELLA REALTA’ FISICA E SPIRITUALE DELL’INFERNO PER L’ETERNITA’. SOLO LA SANTA EUCARISTIA, IL RINNOVO INCRUENTO DEL SACRIFICIO DI CRISTO CHE SI CELEBRA DURANTE LA SANTA MESSA SALVA. E IL CRISTIANESIMO E’ L’UNICA RELIGIONE CHE SALVA. TUTTO IL RESTO E’ PURO PAGANESIMO, IDOLATRIA, MISTIFICAZIONE.
Ci sono pagine letterarie che ci aiutano a comprendere.
«Mi dia il tempo di riflettere», disse, adagiandosi, il vecchio signore. Percy, frattanto, ricompostosi sulla sedia, aspettava con il mento appoggiato alla mano. La stanza silenziosissima, dove i tre uomini si erano riuniti, addobbata con l’estremo buon senso dell’epoca, era priva di finestre e di uscio (…).
Il padre Percy Franklin, l’anziano dei due preti, era un uomo di singolare aspetto. Non oltrepassava i trentacinque anni e aveva i capelli tutti bianchi; i suoi occhi grigi, sotto nere sopracciglia, mostravano una vivacità particolare, quasi appassionata (…). Era uno di quegli uomini che non si possono guardare una sola volta. Il padre Francis, seduto dall’altro lato del caminetto, si ravvicinava più al tipo ordinario. Infatti, nonostante lo sguardo dolce e attraente degli occhi bruni, nulla mostrava di energico sul volto. …). Il signor Templeton, infine, parlò. «Sicuro!» – disse – «è una faccenda seria ricordare tutti gli avvenimenti; ma ecco in breve come me li rappresento. In Inghilterra il nostro partito corse i primi pericoli quando fu eletto il Parlamento del Lavoro nel 1927, quello di Gustavo Hervé (…). Questi, come forse, ella avrà letto, insegnava un materialismo e un socialismo assoluti, spinti fino alle estreme conseguenze. Per lui, la patria era un avanzo di barbarie e unico vero bene la soddisfazione dei sensi. Naturalmente, tutti si burlavano di lui dicendo che, fuori della religione, nulla poteva giustificare tra le moltitudini la conservazione del più elementare ordine sociale; ma i fatti gli diedero ragione. Caduta la Chiesa di Francia sul principio del secolo e dopo i massacri del 1924, la borghesia si accinse alla propria riorganizzazione; e questo movimento straordinario, seriamente iniziato, penetrò nel medio ceto negando la patria, la distinzione di classi, e di fatto, qualsiasi istituzione militare. La Massoneria, si capisce, era quella che dirigeva tutto il movimento (…). La Bibbia aveva perduto ogni autorità, dopo i ripetuti attacchi della critica tedesca e all’inizio del secolo la divinità stessa di Nostro Signore non era altro che una parola vuota. Per esprimermi con parola rude, credo che incominciasse la separazione delle pecore dai capri. Le persone religiose erano tutte cattoliche e individualiste: quelle irreligiose rifiutavano in blocco il soprannaturale, e si facevano dalla prima all’ultima materialiste e comuniste (…). È altresì vero che la Chiesa Cattolica, come unica istituzione che si arroghi un’autorità soprannaturale, con la sua logica irresistibile deve accattivarsi la simpatia di tutti quei cristiani, che nel soprannaturale mantengono sempre la fede. Ma non è men vero, che l’Umanitarismo, contrariamente all’attesa comune, sta per divenire esso stesso una religione, una religione però anti-soprannaturale: è panteismo. Sotto l’influenza della Massoneria sta perfezionando il suo rituale, ed ha esso pure il suo credo: l’uomo è Dio etc. etc. Può dunque offrire un efficace nutrimento alle aspirazioni religiose; vagheggia delle idealità, pur non chiedendo nulla, che sia al di sopra delle facoltà umane. Di più, ci hanno tolto tutte le Chiese e le Cattedrali, e incominciano già a promuovere la Religione del cuore. Io ritengo che tra dieci anni questa sarà la nuova religione legalmente riconosciuta. E noi cattolici adesso perdiamo terreno, come lo abbiamo continuamente perduto da più che cinquant’anni. (…). Abbiamo, sì, riconquistato Roma, ma non c’è altro. (…). No, padre, non vi è dubbio, noi siamo quasi perduti e camminiamo verso una catastrofe, per la quale io penso che dovremmo trovarci preparati da un momento all’altro. Non vedo un raggio di speranza finché…». Percy gli rivolse un’occhiata penetrante… «Finché… non ritorni… il Signore!», concluse il vecchio statista. Padre Francis sospirò ancora; nella stanza, nuovo momento di silenzio (…). Percy restò in silenzio per qualche minuto; alzatosi poi ad un tratto, disse in Esperanto: «Bisogna che io parta, giacché sono le nove passate. Per ora, tante grazie, signor Templeton!».
Francis, a sua volta, si alzò, mostrando l’intero abito da prete di color grigio scuro, e prese il cappello. (…). Percy sorrise, alzando i neri sopraccigli e infine disse, rivolto a Francis: «Andiamo, Padre». I due preti si separarono sulla gradinata attigua al corridoio, ma Percy rimase per alcuni istanti con lo sguardo fisso all’intima scena autunnale, sforzandosi di comprenderne il muto linguaggio (…) e vide su in alto, dirimpetto ad alcune nuvole sinistramente illuminate, un oggetto oblungo e fine, chiaro di una luce incantevole, guizzare verso il nord, per poi dileguarsi ad ali spiegate. (…). «Finché… non ritorni… il Signore!… » – ripeté a se stesso padre Percy, e per breve tempo l’antica angoscia tornò a opprimergli il cuore.
È il prologo de “Il padrone del mondo”. Il libro profetico del grande convertito Robert Hugh Benson (1871–1914) descrive il mondo che si va costruendo: permeato da una concezione dell’uomo, della vita sociale, dei rapporti tra le persone, della realtà, in cui c’è posto solo per l’uomo. Questo è l’”Umanismo”: un progetto politico, culturale e sociale. Il collante di questo progetto è rappresentato dalla cancellazione, anche in forma violenta, del passato, di qualsiasi religione e in particolare del Cattolicesimo. La forza che fornisce energia all’Umanismo è la Massoneria, che rappresenta la base ideologica di questo progetto, animato da una grande passione da parte dei suoi interpreti e protagonisti, perché è necessaria una grande passione per costruire un mondo senza Dio.
Il mondo anti-cattolico, insieme a buona parte di quello cattolico – colpevole di aver separato la fede dalla ragione – ha sferrato nell’ultimo secolo un attacco formidabile alla Divinità di Nostro Signore Gesù Cristo, al Suo essere Re del Cielo e della Terra. Tutto è stato distrutto dalle sue fondamenta: i Parlamenti, le Università, le Scuole, la Famiglia, con il divorzio, l’aborto, l’uso generalizzato dei sistemi contraccettivi, che ha eliminato 6 milioni di persone nell’arco di 40 anni.
Questo non bastava: si sono letteralmente inventati ed hanno attivamente promosso la cosiddetta teoria del gender, irrobustendo anche con finanziamenti pubblici le già potentissime lobby omosessualiste.
Ancora non bastava. Inseguono il meticciato, la sostituzione della popolazione, grazie all’apporto di masse di diseredati provenienti soprattutto dall’Africa, oggetto di commercio di carne umana che rimpingua con 6 miliardi di dollari all’anno le casse delle organizzazioni criminali in combutta con le organizzazioni dei paesi che li ospitano. Viene propagandata l’accoglienza e l’integrazione con quel mondo – l’Islam – che all’Occidente è ostile, per ragioni culturali, identitarie e storiche. Viene addirittura diffusa l’idea della convenienza di accogliere una quota di qualche centinaia di migliaia di immigrati ogni anno, perché questi svolgerebbero lavori che nessuno vuole più svolgere, rimpinguerebbero il PIL, pagherebbero buona parte del sistema pensionistico e poi – soprattutto – garantirebbero la sopravvivenza delle nostre società, il cosiddetto tasso d’incremento della popolazione. Perché loro, gli islamici, si sposano – con una o più mogli, fa lo stesso – fanno figli, mentre noi non ci sposiamo e, se ci sposiamo, divorziamo, non facciamo più figli (perché abortiamo e usiamo i sistemi contraccettivi) o, se li facciamo, siamo costretti a mandarli all’estero (120mila sono i giovani italiani che ogni anno lo fanno) per vivere, visto che qui da noi non trovano lavoro. E poiché i giovani che vanno all’estero sono in gran parte maschi, qui rimarrebbero le femmine, a disposizione di coloro che vogliono usarle. E questa non è volontà di autodistruzione?
Tutto è stato re-inventato in base alle supposte esigenze dell’uomo, tentando di eliminare la sua naturale dimensione legata al mistero, al soprannaturale. È stata realizzata una catastrofe.
Nella profezia di Benson, una sola cosa non è stata eliminata: la paura della guerra che può sconvolgere il mondo. Nel romanzo, solo l’Anticristo – l’Uomo-Dio, Giuliano di Felsenburg, che ammorba e seduce le masse e diviene il capo di tutta l’umanità – potrà divenire il punto di riferimento dell’umanità per liberarla da questa paura. Un secondo fattore di paura deriva dal fatto che l’uomo, con il suo potere, non domina gli eventi. Ci sono degli eventi inaspettati, due grossi incidenti, uno ferroviario, l’altro automobilistico, su cui il libro si sofferma. A entrambi questi incidenti è presente una giovane donna, moglie del deputato comunista più famoso. Vede il terrore della gente che capisce che sta per morire, sente le grida delle persone che stanno per morire e, quando torna a casa, dice al marito: quelle persone «non invocavano mica l’umanità».
Quando compare la morte, nel profondo di questi uomini che cantano l’inno massonico, di questi uomini che sono felici, che sono stati felici fino a quel momento, viene in mente la parola Maria Santissima, viene in mente la parola Dio, viene in mente la parola Cristo e cercano questo.
«Aspettavano il prete», racconta la donna al marito. «Quando l’hanno visto c’è stato tutto un movimento verso di lui. È passato come un angelo a confortare, a benedire, ad ascoltare, ad assolvere, a chiudere gli occhi dei morenti. Cosa gli avresti detto tu, gli avresti parlato dell’umanità? Si può parlare dell’umanità a uno che muore?». Dio si presenta nelle vicende umane come un fattore nuovo, che sconvolge tutto. Così, si presenta il vero protagonista del romanzo: la fede. Il mondo “inventato” da Benson – anticipatore della realtà in cui viviamo – ha bisogno di riscoprire il Cristianesimo, di chiedere a Dio che ci doni una cosa sola: la fede.
Dice uno dei protagonisti del romanzo: «Dobbiamo liberarci da questa lebbra cattolica; fino a quando non ci saremo liberati, non si potrà erigere, in modo totale e pieno, il mondo nuovo, che dipende dall’uomo, dall’unità degli uomini, dalle capacità scientifiche e tecnologiche».
È questo il mondo nuovo. Quindi, bisogna distruggere chi ci ricorda ancora che c’è Dio e pretende di consegnare la nostra vita personale e sociale a dimensioni che non possiamo controllare. Le dimensioni che non possono essere controllate, non solo non esistono, ma devono essere distrutte. Questo è il grande progetto che si muove e che attraverso la grande capacità di manipolazione dei mezzi della comunicazione sociale s’intende affermare. Un grande e terribile progetto – che vuole far vivere masse anonime, prive della loro identità – violento e fragile nello stesso tempo, che dev’essere governato da un uomo che raccoglie in sé la capacità di formulare le linee fondamentali del discorso in termini comprensibili e che ha una capacità di comunicazione da incantare le masse.
È Giuliano Felsemburgh: un uomo misterioso. Le biografie che circolano coprono di mistero la sua vita. Inglese, americano, straordinaria capacità d’imparare le lingue e di comunicare, possesso quasi assoluto della varietà delle culture, che esistono ancora nella coscienza dei singoli popoli. Un leader. Il leader. Il Padrone. Il Signore. Interviene, fa la pace tra Oriente e Occidente, è l’unico che riesce ad imporsi all’Imperatore. Mette insieme gli Stati europei, in modo da creare un certo organismo politico. Partecipa a tutti gli avvenimenti di negoziazione politica. Incontra le masse. Si comincia a parlare di lui come si è parlato di Gesù Cristo nella tradizione cattolica. Perché, dove Cristo, Dio che si è fatto Uomo, ha fallito – dicono – perché non ha fatto nulla per togliere il male, la violenza, la crudeltà, quest’uomo che diventa Dio sta raggiungendo tutti i risultati. Si comincia a definirlo il Figlio di Dio, l’Uomo-Dio, il Redentore. «Poteva dunque chiamarsi Creatore» fa dire Benson al Papa nel colloquio che questi ha con padre Franklin, che va a riferirgli della situazione: «Egli poteva dunque chiamarsi Creatore, per aver recato tra gli uomini quella vita di unione perfetta, alla quale avevano per tanto tempo sospirato invano, prima cioè d’essere stati rifatti a sua immagine e somiglianza. Poteva dirsi altresì Redentore, imperocché quella somiglianza aveva in certo modo sedato il tumulto di ogni errore e di ogni conflitto; l’uomo fu condotto per Lui dalle tenebre e dall’ombra di morte nelle vie della pace. Per la stessa ragione Egli era il Salvatore; era il Figlio dell’Uomo, perché l’unico perfettamente umano; l’Assoluto, in quanto riassumeva in se stesso tutti gli ideali; l’Eterno, perché la natura lo aveva sempre in sè virtualmente contenuto ed assicurato per Lui la perfetta continuità del suo ordine; l’Infinito, non potendo far parte delle cose finite, come Colui che era superiore al loro complesso. Di più era l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine, il primo e l’ultimo; era Dominus et Deus noster – proprio come Domiziano!».
Nel colloquio che ha con il Papa, padre Franklin descrive la situazione in cui la Chiesa vive in questo tentativo di omologare in modo disumano la vita degli uomini: «Nella penombra di quella stanza, ad una gran tavola da scrivere, sedeva la bianca figura del Papa, proprio in faccia alla porta, per la quale i due erano entrati. Tanto vide Percy nel fare la prima genuflessione (…). “Il padre Franklin, Santità”, disse il Cardinale al Papa, avvicinandosi ad un suo orecchio. Un braccio, vestito di bianco, fece cenno a due sedie lì accanto, sulle quali si accomodarono subito i visitatori. (…). “ Ed ora, figlio mio, ecco i tre punti che vi propongo: che cosa è avvenuto, che cosa avviene, che cosa avverrà, con una richiesta su quello che dovrebbe esser fatto”. Percy sospirò profondamente, appoggiò il dorso alla sedia, intrecciò le dita di una mano con quelle dell’altra, fissò a basso davanti a se una scarpa ricamata di croce, ed incominciò il discorso, che il giorno avanti aveva recitato almeno per un centinaio di volte. “(…) Le forze del mondo civile concentrate in due opposti campi: il mondo e Dio. Fino ad oggi le forze del mondo, incoerenti e convulse irruppero per diverse vie: le guerre e le rivoluzioni furono, come movimenti di una folla, indisciplinate, sregolate, sfrenate. A queste la Chiesa oppose la sua cattolicità, più intenta ad estendere che ad intensificare la propria azione; ai franchi tiratori mise contro altri franchi tiratori. Ma durante gli ultimi cento anni vi fu più di un indizio che la tattica di guerra doveva esser cambiata. (…)”. Illustrato questo cambiamento dal lato economico; la pacifica spartizione dell’Africa dal lato politico, Percy illustrò lo sviluppo dell’Umanità dal lato religioso. “(…) Era volontà di Dio e del suo Vicario di affratellare tutti gli uomini in Gesù Cristo; ma la pietra angolare è stata una volta di più reietta, ed invece del caos, che ne avevano profetizzato le persone pie, ecco sorgere una meravigliosa unità che non ha l’uguale nella storia. Ed è facile che concorrano a formarla molti elementi di una bontà indiscutibile. La guerra, secondo ogni apparenza, è morta, ma non è stato il Cristianesimo che l’ha uccisa. Gli uomini si sono convinti che l’unione vale più e meglio della discordia, ma hanno appreso la lezione fuori dalla Chiesa. In realtà, le virtù naturali hanno incominciato inopinatamente a crescere rigogliose. La filantropia ha usurpato il posto della carità, la soddisfazione quello della speranza e la cultura quello della fede”. Percy si arrestò, accortosi di aver preso un tono un po’ da predicatore. “E così figlio mio!”, disse la dolce voce. “Che altro ancora?”. “(…) L’uomo di questo movimento è Giuliano Felsemburgh. Egli ha compiuto un’opera, umanamente parlando, miracolosa. Ha posto fine alla eterna divisione tra l’Oriente e l’Occidente (…); ha superato, mercé l’unico suo personale prestigio, le due più grandi tirannie della umanità: il fanatismo religioso ed i partiti politici (…). Qui Percy descrisse alcune scene in cui Felsemburgh appariva come una visione divina, e citò liberamente gli epiteti attribuiti a quest’uomo da giornali ben fatti, seri e tutt’altro che fanatici. Felsemburgh era chiamato il Figlio dell’Uomo, a cagione della sua educazione Cosmopolita; Salvatore del mondo per aver debellato la guerra, e perfino… – qui la voce del prete cominciò a tremare – perfino… Dio Incarnato, come tipo, il più perfetto, della divina umanità».
Il movimento che sta prendendo il controllo del mondo, tende a diventare una religione di Stato, una religione della società, che prende le festività della liturgia cristiana e le riempie di contenuti umanistici. La Chiesa Cattolica accetta che gli Stati occupino tutte le Chiese del mondo, a condizione di poter mantenere in Roma una realtà ecclesiale viva, di cui tutto il mondo ride, perché è del passato, ma in cui la struttura fondamentale della guida della Chiesa da parte del Papa è assicurata. La Chiesa è in crisi, ma non è morta. Padre Franklin sottopone al Papa l’idea di creare l’Ordine Sovrano del Cristo Crocifisso, a cui si partecipa per scelta personale, guidato dal Santo Padre e dai Vescovi. Dopo qualche anno, questo Ordine del Cristo segna anche una ripresa numerica impressionante, sollevando un odio ulteriore di quelli che vogliono un uomo senza Dio, una società senza Dio.
«Disse Percy: “La persecuzione è imminente. Se ne sono già fatti dei tentativi (…). Senza dubbio cagionerà, come sempre, delle apostasie (…). D’altra parte essa confermerà i veri fedeli e purgherà la Chiesa dalle mezze coscienze (…). Ma quel che fa maggiormente paura è l’influenza positiva dell’Umanitarismo; esso si avvicina, come il regno di Dio, con potestà grande, esalta le menti visionarie e romantiche, asserisce le sue verità senza dimostrarle (…). Persone che non ne hanno mai udito il nome professano le sue massime; i preti le assorbono come già assorbivano Iddio con la Comunione – qui menzionò le più recenti apostasie – i fanciulli se ne inebriano come già si inebriavano del catechismo. L’anima naturalmente Cristiana sembra diventata l’anima naturalmente infedele. La persecuzione deve essere salutata, implorata, abbracciata come l’ancora di salvezza; e, speriamo che le autorità non siano tanto scaltre da distribuire l’antidoto insieme con il veleno; vi saranno così martiri individuali, vi saranno, e molti, ma a dispetto del governo secolare, non a causa di esso. Finalmente c’è da aspettarsi che l’Umanitarismo vesta gli abiti della liturgia e del sacrificio; dopo di che se Iddio non interviene, la causa della Chiesa sarà perduta!”. Percy si appoggiò alla sedia, tremante. “ Sì, figlio mio! E che cosa ci resterebbe da fare?”. Percy lasciò cadere le mani. “Santo Padre, la Messa, la preghiera, il rosario: queste sono le prime e le ultime cose. Il mondo nega la loro potenza, ed appunto in queste devono i cristiani cercare l’appoggio ed il rifugio. Tutte le cose in Gesù Cristo, in Gesù Cristo ora e sempre; nessun altro mezzo può servire: Egli deve far tutto, perché noi non possiamo fare più nulla!”. La bianca testa si chinò in segno di approvazione. “Sì, figlio mio!… Ma, finché Gesù Cristo si degna servirsi di noi, noi dobbiamo essere profeti, re, sacerdoti. Quale sarà la nostra profezia ed il nostro regno?”. A queste parole Percy fremé come, ad uno squillo improvviso di tromba. “Ecco, Santo Padre! (…). La Santità Vostra ha sempre predicato la carità; splenda dunque la carità nelle nostre azioni, cerchiamo di essere i primi nelle sue vie, recando la probità negli affari, la castità nella famiglia, l’onestà nel governo. E quanto al patire… oh! Santità….”. Qui gli balzò nella mente il suo antico disegno e vi rimase, questa volta, chiaro, convincente, imperioso. “Santità, ho un vecchio progetto…vecchio quanto Roma. É l’idea dei pazzi! Un nuovo ordine… un nuovo ordine”. Il Papa sporse avanti la testa e guardò fisso il giovine prete. “Proprio, figlio mio?”. Percy cadde in ginocchio. “Un nuovo ordine, Santità, senza abito o distintivo speciale, soggetto unicamente alla Santità Vostra, più libero dei Gesuiti, più penitente dei Certosini, più povero dei Francescani, formato di uomini e di donne, con i tre voti, aggiuntavi l’intenzione di subire, all’occorrenza, anche il martirio. Il Pantheon sarà la sua Chiesa, ogni vescovo ne sorveglierà i membri entro i limiti della sua giurisdizione, e un luogotenente in ciascun paese e Cristo Crocifisso sarà il suo patrono. Santità, è il pensiero di un pazzo”. Il Papa si alzò bruscamente, tanto bruscamente che il Cardinale Martin balzò anche lui in piedi sbalordito. Pareva che il giovine prete avesse corso un po’ troppo! Ma il Papa si rimise a sedere e alzando la mano, disse: “Iddio vi benedica, figlio mio! adesso potete ritirarvi”».
I termini dello scontro sono ora chiari. Da un lato coloro che vogliono costruire il mondo nuovo, che credono di poter vincere. Dall’altro lato, la Chiesa, che grazie all’azione dell’”Ordine Nuovo” si riprende, torna ad essere una presenza, sfida la parte che le è avversa. L’esperienza del martirio si rinnova: ciascuno viene interrogato e deve rispondere alla domanda: “Tu credi in Dio?”. Alla risposta affermativa, viene comminata subito la pena di morte. È necessario imporre una “religione nuova”, distruggere il passato e apostatare la fede. Si dovrà distruggere Roma, l’intera tradizione cristiana e la sua immensa esperienza artistica e culturale. Il piccolo gregge che resiste – dodici cardinali con un giovane Papa, che è padre Franklin – che guida la Chiesa da Nazareth, dovrà subire la stessa sorte, ma quando tutto fa presagire che l’Umanismo abbia preso l’intero campo ed abbia compiuto la devastazione, l’intervento di Dio sovverte il disegno degli uomini malvagi.
La Chiesa, oggi, sta vivendo queste cose, descritte da Benson oltre un secolo fa. Dio o il Demonio. È questo lo scontro in atto. Di carattere escatologico: riguarda direttamente e profondamente il tema della salvezza. Dopo il Suo Battesimo ad opera di Giovanni Battista e prima della Sua predicazione pubblica, Gesù stesso volle essere tentato dal Maligno (Mt 4, 1-11). Per amore degli uomini e per dare loro un insegnamento per le loro vite. Respingendo con fermezza e nettezza le tentazioni diaboliche, Nostro Signore pose riparo alle cadute degli uomini prima e dopo di Lui. Preannunziò le successive tentazioni di ognuno di noi e le lotte della Chiesa contro le tentazioni del potere demoniaco. Per questa ragione, Gesù ha insegnato agli uomini, nel “Padre Nostro”, a chiedere a Dio di aiutarli con la Sua grazia per non cadere nell’ora della tentazione, che segnerà la storia umana fino alla fine dei tempi, finchè… non ritorni… il Signore!
Viviamo tempi di evidente e limpida chiarezza. Deve essere così. Meglio la chiarezza che l’oscurità. Meglio intravvedere possibilità di salvezza per l’eternità, che si avvicinano rapidamente, piuttosto che vivere nelle tenebre. Su questa Terra, il combattimento tra il bene e il male è inevitabile, a causa della ribellione dell’uomo a Dio, originata dal peccato originale. Qualcuno potrebbe dire – l’ha detto, in verità – «a quei tempi non c’era il registratore». Prima di costui, però, l’apostolo Giovanni, duemila anni fa, aveva già risposto al Capo Superiore dei Gesuiti (Gv 20, 24-29): «Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Poi disse a Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!”. Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”».
Noi crediamo, pur non avendo visto. Crediamo che l’epilogo finale del combattimento tra il bene e il male riguardi l’itinerario della nostra vita su questa terra, che sarebbe priva di senso e inutile se non fosse anche testimonianza, umile e sincera, che guarda al Cielo e all’eterno.
Leggendo insieme i passi dell’Apocalisse di San Giovanni e quelli del Vangelo di Matteo (24, 1-51), si comprende che stiamo vivendo la “grande tribolazione”. Gesù usa quest’espressione: “l’abominio della desolazione”. Attraversando questa desolazione ci sentiamo smarriti. Invochiamo Dio e ci sembra che Egli non voglia rispondere. Ci sentiamo abbandonati, ma non è così. Dio sta sottoponendo i Suoi “amici”, come Gesù, nel Vangelo di Giovanni, chiama coloro che amano Suo Padre, ad una grande prova, che prepara quella finale. È Gesù stesso che esorta alla vigilanza: «Vegliate», dice (Mt 24, 42) «perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà». Il cristiano deve quindi vivere vigilando rispetto alle realtà che verranno, come se ogni giorno fosse l’ultimo della sua vita. Prima conseguenza di questo “vigilare” non può che essere consapevolezza e conoscenza della realtà di questa prova, di questa sofferenza.
Esiste – ed era stato profetizzato – un assalto dei lupi al gregge che vuole appartenere a Dio. Quest’assalto riguarda anche la situazione senza precedenti in cui si trova al suo interno la Chiesa Cattolica, fondata da Nostro Signore Gesù Cristo. Il primo passo da compiere, per tentare di acquisire conoscenza di questa situazione, è quello di guardare in profondità. Per farlo, bisogna risalire al XVI secolo, alla figura di Jan Amos Kominsky detto Comenius (1592-1670). Discendente da una famiglia della setta protestante anti-trinitaria dei Fratelli Boemi, divenne membro dei Rosacroce, una setta segreta, panteistica, di derivazione cabalistica, protestantica e madre della Massoneria. Ebbe come padre spirituale Johann Valentin Andreae (1586–1654), uno dei fondatori dei Rosacroce, che lo elesse come suo successore nell’opera di espansione della sinarchia mondialista anti-cattolica romana. «Comenius» – come scrive Don Curzio Nitoglia in “Nuovo dis-ordine europeo” – «voleva unificare a livello mondiale l’istruzione scolastica; coordinare i governi nazionali in un’istituzione super-nazionale; riunire pan-ecumenicamente le chiese cristiane e le religioni a-cristiane all’insegna di un “cristianesimo” (di nome) pluralista, relativista, tollerante e modernistico. (…). Nel suo scritto “Consultatio de rerum humanarum emendazione, pars VI, Panorthosia (Amsterdam, 1644), annunzia il piano sinarchico della distruzione della Chiesa romana e del Papato ad opera dei popoli nordici, ossia luterani e di quelli islamici ottomani, passando prima attraverso la dissoluzione del S. Impero Romano Austriaco (v. 1a guerra mondiale) per giungere al Nuovo Ordine Mondiale: “ordo a caos”, oppure “lux ex tenebris”, come dicono i massoni». Il piano di Comenius è entrato nella Chiesa di Roma con il Concilio Vaticano II e con il post-concilio, tanto che il 16 aprile 1993 il Pontificio Consiglio della Cultura, lo celebra con un simposio internazionale, intitolato “L’eredità di Comenius, bilancio di un centenario” e il cardinale Paul Pouppard, suo presidente, dichiara: «Comenius è stato il pioniere di una nuova educazione dell’uomo per l’uomo» (“Esprit et Vie”, 13 maggio 1993).
Continuatore del piano di Comenius fu Alexandre Saint-Yves d’Alveydre (1842-1909), che «progettò» – sintetizza Nitoglia – «di allargare la sinarchia dall’Europa (con Londra, Parigi e Bruxelles come capitali) al mondo intero, tramite la formazione di un’Unione Europea con un Supergoverno transnazionale che unisse le varie chiese cristiane (tranne quella romana) in vista di una comunità economico-finanziaria dominata dal denaro delle grandi banche. In breve, occorreva formare al di sopra delle Nazioni e delle Patrie un governo tecnico, di scienziati e di professori, di banchieri e di economisti e al di sopra della Chiesa romana un consiglio federale o democratico delle varie chiese nazionali dominate dalla Superchiesa, o meglio Controchiesa, la massoneria». Non è forse quello che vive oggi l’Europa, del tutto scristianizzata e affidata, nella “sorte” dei suoi popoli e dei suoi individui, ad oligarchi spregiudicati, a dei veri e propri cannibali, che conducono i disegni delle sette economico-finanziarie e massoniche di cui fanno parte?
Nel secolo scorso, viene reso pubblico l’antico piano segreto. È Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi (1894-1972) a realizzarlo. Nel corso di una conferenza all’Accademia delle Scienze Morali e Politiche di Parigi del 15 aprile 1960, afferma: «La caduta dell’Impero dei Papi ha permesso la nascita di una federazione europea laica». L’affermazione è in sintonia con le dichiarazioni di Alber Pike (1809-1891, Gran Commendatore del Rito Scozzese Antico e Accettato della Massoneria per la Giurisdizione meridionale degli Stati Uniti. Il “piano Kalergi” consiste essenzialmente nella distruzione totale della Vecchia Europa, iniziata con la Prima guerra mondiale, seguitata con la Seconda e terminata con l’Europa Unita di Bruxelles e l’invasione di massa di milioni di musulmani provenienti dall’Africa.
Sappiamo bene che lo spazio temporale di alcuni secoli, per gli esseri umani è enorme ed evocarlo potrebbe suscitare una domanda: “Che senso ha collegare gli anni attuali di Bergoglio e del Papa emerito addirittura al XVI secolo?”. Sarebbe una domanda ragionevole se non si considerassero tre aspetti decisivi.
Il primo riguarda la nostra concezione del tempo, che non è quella di Dio. Per Dio, il tempo non esiste, perché Egli è eterno e i Suoi “tempi” non sono i nostri “tempi”. Il secondo aspetto attiene al fatto che la Chiesa non è un’Istituzione umana, ma divina e la penetrazione delle presenze di origine diabolica si deve scontrare con la volontà di Dio, perché è Dio che permette al Maligno di operare, sempre per consentire un bene superiore. Il terzo punto attiene direttamente a Bergoglio, che non è una “meteora”, come qualcuno vorrebbe far credere, mentendo e mistificando. Con i suoi gesti, con le sue parole, con le sue Esortazioni apostoliche, con la sua concezione “democratica” del Papato – una contraddizione grande quanto una casa, perché la democrazia nulla ha a che fare con la Chiesa, che per volontà di Nostro Signore Gesù Cristo è una struttura gerarchica – con le sue ambiguità, con i suoi “vizi privati”, come le telefonate o le esternazioni sugli aerei, che vorrebbero demolire duemila anni di storia del Cristianesimo, corrette, sempre ad arte, con le “pubbliche virtù”, in un gioco di ambiguità e confusione gigantesco, non fa che proseguire un disegno antico, di cui è assolutamente consapevole, insieme ai teologi che lo assecondano. Egli sa che suo unico compito, per esplicito mandato divino, dovrebbe essere quello di custodire, tramandare e confermare i cattolici nella fede. Tanto che lo dice espressamente: il 4 maggio 2018, durante un’omelia a Santa Marta, commentando un passo degli Atti degli Apostoli che descrive un momento difficile della comunità cristiana di Antiochia, parla di come “custodire la fede” e “confermare nella fede”. Dice che quelli che si erano presentati a difendere la gente come «ortodossi della vera dottrina, credendo di essere i veri teologi del cristianesimo, avevano disorientato il popolo: gli apostoli, i vescovi di oggi, lo confermano nella fede». Aggiunge che «Il vescovo è quello che sorveglia, quello che vigila; è la sentinella che sa guardare per difendere il gregge dai lupi che vengono». Dal punto di vista teologico, il suo dire – che potrebbe sembrare auto-referenziale o, addirittura, di carattere bipolare – non fa una piega. Si tratta solo di capire di quale teologia si tratti.
Degli ultimi sessant’anni di questa storia che dura da secoli, si occupa in una video-intervista rilasciata a “The Wanderer” e pubblicata il 3 maggio 2018 di mons. Antonio Livi, professore Emerito di Filosofia alla Pontificia Università Lateranense, uno dei massimi teologi e filosofi contemporanei. «La pastorale di Papa Francesco», chiede la giornalista, «già implementata da decenni al Nord delle Alpi, porta ad una Chiesa moribonda. Perché Papa Francesco non se ne rende conto?». Risponde Livi: «Perché lo hanno eletto apposta per questo. Lui l’ha detto: i miei fratelli cardinali mi hanno eletto perché io mi occupi dei poveri, perché io porti avanti la Riforma. In realtà, è quel gruppo di teologi di San Gallo, in Svizzera, Godfried Danneels, Walter Kasper, Karl Lehmann e altri, che già quando fu eletto Benedetto XVI, avevano l’idea che il papa che avrebbe potuto portare avanti una Riforma in senso luterano della Chiesa, avrebbe potuto essere lui, Bergoglio. Perché la pastorale o la politica d’intesa interreligiosa con i luterani e poi con tutti gli altri, mira a far sì che i luterani siano apprezzati ed approvati, che il cattolicesimo sia sempre più ridimensionato e si penta di tutti i suoi peccati. Il teologo di Papa Francesco più a portata di mano, il direttore di ‘Civiltà Cattolica’, Antonio Spadaro, pubblica articoli di un suo confratello gesuita, Giancarlo Pani, che dice sempre: “La Chiesa ha sbagliato, ha peccato con Lutero. Lutero aveva ragione e adesso bisogna rivalutarlo a fare quello che lui voleva”. Che cosa voleva fare Lutero? Una Chiesa senza sacerdozio, una Chiesa senza magistero, una Chiesa senza dogmi, una Chiesa senza un’interpretazione ufficiale della Sacra Scrittura, lasciata in mano alle persone che la interpretano secondo lo spirito, presunto, che loro suggerisce. Una Chiesa sinodale, dove sacerdoti, vescovi, papi, non sono espressioni del Sacro, ma della politica, della comunità che elegge, che nomina. Il papa stesso dice questo: “Bisogna arrivare ad una Chiesa di popolo”. Non si può mai sapere quello che vuole il popolo, cioè una moltitudine di persone diverse. Anche in politica l’espressione “popolo” è puramente retorica, tanto più in teologia. La Chiesa non ha mai fatto un’operazione di carattere “democratico”, come eleggere delle persone con il consenso di una base e non ha mai tirato fuori da quello che la gente pensa quello che la Chiesa deve insegnare. La Chiesa deve insegnare quello che ha detto Gesù. È così semplice».
Livi chiarisce un argomento che coloro che saranno vomitati dalla bocca di Dio – i tiepidi – come dice l’Apocalisse, usano spesso: «Viene detto che il Papa l’ha voluto lo Spirito Santo. È una sciocchezza. Lo Spirito Santo ispira tutti perché facciano il bene, ma non tutti fanno il bene che lo Spirito Santo ispira loro: c’è chi fa una cosa buona e chi fa una cosa cattiva». Chiarisce così: «Se io penso al cardinale Kasper, che già prima voleva distruggere la Santa Messa, il matrimonio, il diritto canonico e adesso il papa dice che è il suo teologo per eccellenza e gli fa organizzare il Sinodo sulla famiglia, dico a me stesso: questa è una cosa tutta orchestrata. Perché poi va a finire in tutte le cose: il riconoscimento di Lutero; preparare una Messa in cui la consacrazione non sia più consacrazione, che sia eliminato il termine “sacrificio” e che piaccia ai luterani. La stessa cosa successa con Paolo VI, che nella Commissione del Concilio Vaticano II, presieduta da Annibale Bugnini, che doveva preparare il Novus Ordo Missae, inserì dei luterani, che avevano il compito di dire che cosa a loro piaceva e non piaceva della Messa cattolica. Una cosa assurda! Si vede, allora, che è un piano molto ben orchestrato, che non viene da adesso. Proviene dai primi anni sessanta; per più di 50 anni i teologi eretici, malvagi, hanno tentato di conquistare il potere e adesso l’hanno conquistato. Per questo, dico: l’eresia al potere. Non sono i papi eretici. Io non l’ho mai detto di nessun papa. Sono papi che hanno subito quest’eresia e non l’hanno contrastata. Pensiamo a Giovanni XXIII quando dice: affermiamo la dottrina di sempre, ma senza condannare nessuno. Questo è impossibile: la condanna fa parte della spiegazione del dogma, è l’altra faccia della stessa medaglia. Se si vuole applicare il dogma nei tempi moderni, dove ci sono delle eresie, bisogna per forza condannarle. Non condannare niente, significa approvare tutto. Approvare tutto, significa che non c’è più la fede cattolica».
Che non ci sia più la fede cattolica è quello che vuole Satana. La sua strategia – com’è accaduto nel caso dell’olocausto del piccolo Alfie Evans, come sta accadendo per Vincent Lambert – è diventata ora quella di richiedere sacrifici umani perché il suo obiettivo si realizzi.
Perché Satana ricorre a questo? Perché sa che la lotta da lui iniziata con Dio quando ha sedotto l’uomo con il peccato originale, richiederà, dopo la purificazione spirituale, anche quella fisica e sa anche che la Santa Vergine Maria lo schiaccerà, aiutata nel Suo intervento dal sangue dei martiri. È molto probabile che il successore di Bergoglio porti a compimento definitivo il disegno anticristico iniziato alcuni secoli fa. Anche qui, non possiamo, noi umani, sapere quando e come, stabilire il tempo. Quel che possiamo fare è pregare perché si avvicini il più in fretta possibile il trionfo del Cuore Immacolato di Maria, che ha già detto “Ora, basta!”. L’ha detto una volta sola, ma l’ha detto: nel 1947, la prima apparizione che Ella fece a Bruno Cornacchiola alle Tre Fontane, a Roma. Un’apparizione tenuta volutamente per tanto tempo segreta, nascosta, che si ricollega direttamente alle apparizioni di Fatima, quando la Santa Vergine Maria ordinò che la Russia fosse consacrata dal Papa e da tutti i Vescovi. Cosa che la Chiesa Cattolica, con 7 papi che si sono succeduti dal 1917 ad oggi, non ha mai fatto nelle forme indicate. È questo che il mondo intero, da allora, paga: la disobbedienza alla Nostra Mediatrice e Corredentrice. La disobbedienza a Dio, quindi, come quella dei nostri progenitori, che mangiarono il frutto proibito, rifiutando il comando e l’amore di Dio. Allora, gridiamole dai tetti queste parole: “Ora, basta!”.
Affidiamoci alla speranza e diciamo: “Signore, ci sei tu, mi basti tu”. Questo dice colui che ha fede di fronte alle umiliazioni, agli scoraggiamenti, alle sofferenze, alle ingiustizie, alle sconfitte che subisce nel suo percorso terreno.
Quando l’uomo che ha fede si sente prostrato e vive una fatica che per lui è insostenibile – anche rivolgendosi umilmente a Dio per chiederGli aiuto e sostegno – proprio allora esercita la fede. Nel fondo più profondo della sua vita, la risposta dell’uomo a questo stato di prostrazione può squarciare e aprire il Cielo. Renderlo forte rispetto a qualsiasi tipo di evento terreno si verifichi.
Gesù esprime questa realtà della nostra vita con l’immagine della “porta stretta”. Dice (Lu, 13, 24): “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno”. Scrive Josemaría Escrivá de Balaguer in “È Gesù che passa”, n. 75: “La lotta del cristiano non ha soste, perché nella vita interiore si verifica quel continuo cominciare e ricominciare che impedisce che ad un dato momento la superbia ci faccia considerare perfetti. È inevitabile che vi siano molte difficoltà nel nostro cammino; se non trovassimo ostacoli, non saremmo creature di carne ed ossa. Vi saranno sempre delle passioni pronte a trascinarci in basso, e dovremo sempre difenderci da tali deliri, più o meno veementi”. Sono queste le vie per le quali Dio conduce, nel mistero, i Suoi amici.
Santa Teresa d’Avila diceva: “Nostro Signore chiede e ama anime coraggiose, per quanto umili. Nella vita spirituale occorre intraprendere grandi cose”. Lei iniziò, tra mille difficoltà e sacrifici, la riforma del Carmelo, che prevedeva la fondazione di nuovi conventi, maschili e femminili. Così, iniziò a viaggiare molto, affrontando fatiche e disagi, nonostante la cattiva salute e i disturbi che aveva. Per le ferite delle sue gambe, un giorno si rivolse a Dio, dicendogli: “Signore, dopo tante noie, ci voleva anche questo guaio!”. Dio le rispose: “Teresa, io tratto così i miei amici”. Lei replicò: “Ah, Dio mio, ora capisco perchè ne avete così pochi!”.
Quei pochi sono le leve che reggono il mondo. Sono gli “umiliati e offesi” come li chiamava Fëdor Dostoevskji nel suo romanzo quasi dimenticato. Sono coloro che non solo amano Fatima – perché comprendono che questa è la lettura di questo terribile secolo – ma ne vogliono anche vivere lo spirito, in prima persona, come i tre pastorelli, che pur non capendo nulla, si affidavano e obbedivano alla parola della Santa Vergine Maria, perché dentro di loro vivevano la certezza che quello bisognava fare.
Gli umiliati e offesi sperano. Perché esiste anche la virtù teologale della speranza. Ne parla Charles Péguy (1873-1914). Di famiglia contadina, compì studi nella Scuola Normale di Parigi, dove gli fu maestro il filosofo Henri Bergson. Per buona parte della sua vita, aderì ad una forma di socialismo personale, si accostò poi al cattolicesimo, che si rivela nelle sue ultime opere. Allo scoppio della prima guerra mondiale, si arruolò volontario trovando la morte nella battaglia della Marna. Ne “Il portico del mistero della seconda virtù”, che egli scrisse in uno dei momenti più difficili della sua vita, descrive così, nelle prime pagine di questo suo bellissimo e lunghissimo poema, il mistero della virtù teologale della speranza. Péguy dà la parola a Dio: “La fede che più amo, dice Dio, è la speranza (…). Il popolo cristiano non vede che le due sorelle maggiori, non ha occhi che per le due sorelle maggiori. Quella a destra e quella a sinistra. E quasi non vede quella ch’è al centro. La piccola, quella che va ancora a scuola. E che cammina. Persa fra le gonne delle sorelle. E ama credere che sono le due grandi a portarsi dietro la piccola per mano. Al centro. Fra loro due. Per farle fare questa strada accidentata della salvezza. Ciechi che sono a non veder invece che è lei al centro a spinger le due sorelle maggiori. E che senza di lei loro non sarebbero nulla. Se non due donne avanti negli anni. Due donne d’una certa età. Sciupate dalla vita. È lei, questa piccola, che spinge avanti ogni cosa. Perché la Fede non vede se non ciò che è. E lei, lei vede ciò che sarà. La Carità non ama se non ciò che è. E lei, lei ama ciò che sarà. La Fede vede ciò che è. Nel Tempo e nell’Eternità. La Speranza vede ciò che sarà. Nel tempo e per l’eternità. Per così dire nel futuro della stessa eternità. La Carità ama ciò che è. Nel Tempo e nell’Eternità. Dio e il prossimo. Così come la Fede vede. Dio e la creazione. Ma la Speranza ama ciò che sarà. Nel tempo e per l’eternità. Per così dire nel futuro dell’eternità. La Speranza vede quel che non è ancora e che sarà. Ama quel che non è ancora e che sarà. Nel futuro del tempo e dell’eternità. Sul sentiero in salita, sabbioso, disagevole. Sulla strada in salita. Trascinata, aggrappata alle braccia delle due sorelle maggiori, che la tengono per mano, la piccola speranza avanza. E in mezzo alle due sorelle maggiori sembra lasciarsi tirare. Come una bambina che non abbia la forza di camminare. E venga trascinata su questa strada contro la sua volontà. Mentre è lei a far camminar le altre due. E a trascinarle, E a far camminare tutti quanti, E a trascinarli. Perché si lavora sempre solo per i bambini. E le due grandi camminano solo per la piccola”.
La speranza, “la piccola bambina che cammina con le sue sorelle maggiori, con una mano nell’una e una mano nell’altra”, è per i cattolici tutta escatologica: è la speranza dei beni eterni e della ricompensa divina. Per questo, le due sorelle maggiori “camminano solo grazie alla piccola”. La speranza è certa. Non è vaga, né eterea, né dubitativa. I cattolici sono uomini di speranza. Anche se dovessero subire ogni sorta di ingiustizia, hanno la certezza – donata loro dal sacrificio di Nostro Signore Gesù Cristo – che la loro sorte è incomparabilmente migliore di quella dei loro carnefici, che possono perseguire e vivere qualche soddisfazione passeggera e lieve finchè si vive in questa terra, ma poi non potranno vivere quella vera, che dura per l’eterno. Non potranno sedere al banchetto dell’Agnello. E quale sorte è più infelice? Strettamente correlata alla speranza escatologica è la preghiera per la conversione dei nemici, nei confronti dei quali c’è una sola risposta da dare: la sovrabbondanza di bene al male che possono fare. Loro, i nemici, rimarranno stupefatti da questa risposta che gli daranno gli amici di Cristo, che disse sulla Croce: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Luca, 23, 34). Alla supplica al Padre – “Padre, perdona loro” – Gesù aggiunge parole sorprendenti, che giustificano i suoi carnefici: “Perché non sanno quello che fanno”.
Parole di amore, di misericordia e di giustizia perfetta, che conferiscono il massimo delle attenuanti che possiamo addurre per i nostri peccati. I responsabili diretti avevano piena consapevolezza che stavano condannando e crocifiggendo un innocente, commettendo un omicidio, ma non sapevano che stavano compiendo un deicidio.
Per questo, Pietro dice ai Giudei, invitandoli al pentimento, che agirono “per ignoranza”, mentre San Paolo aggiunge che se avessero conosciuto la sapienza divina, “non avrebbero crocifisso il Signore della Gloria” ( 1 Cor, 2,8). Gesù fa leva su quest’inconsapevolezza per chiedere a Suo Padre di scagionare i Suoi carnefici. Gesù insegna a perdonare e a cercare giustificazioni per coloro che ci offendono. Se così faremo, apriremo il Cielo anche per loro. Apriremo la porta sublime della speranza, lasciando a Dio il giudizio definitivo sugli uomini. Questo è l’amore, questa è la carità ed è, soprattutto, la speranza eroica dei cristiani, praticata sin dai primi anni della Chiesa e sin dal primo martire, Santo Stefano, che muore invocando il perdono divino per i suoi carnefici (At 7,60).
Il cristiano non cadrà mai su questa terra, perché ha una dignità straordinaria, anche quando è di fronte all’ingiustizia o alla morte. È la dignità che gli ha conferito direttamente Cristo con il Suo Sacrificio e con la Sua morte in Croce. La Sacra Scrittura è piena di questi personaggi deboli secondo il mondo, ma forti secondo Dio. Perché scoraggiarsi o disperare, quindi, per le cose terrene, così fragili, inutili, inesistenti, di fronte all’eternità? Il Signore non ama lo scoraggiamento. I Suoi amici sono coloro che testimoniano la Sua Parola e che non temono gli uomini e le avversità. Perché per i Suoi amici c’è e ci sarà sempre Lui che li accompagna. È lo stesso Gesù a consigliarci come ci dobbiamo comportare per evitare lo scoraggiamento, a volte la disperazione. C’insegna come ci si deve comportare su questa Terra nell’attesa del Suo ritorno, che avverrà in un’ora che non è stata rivelata agli uomini. Gesù afferma: “Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe. Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi. Il fratello darà a morte il fratello e il padre il figlio, e i figli insorgeranno contro i genitori e li faranno morire. E sarete odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato. Quando vi perseguiteranno in una città, fuggite in un’altra; in verità vi dico: non avrete finito di percorrere le città di Israele, prima che venga il Figlio dell’uomo”.
Scriveva Don Divo Barsotti: “Dio ti fa un grande onore non quando ti dà qualcosa, ma quando ti chiede qualcosa”. Noi, invece, attratti – anzi – inchiodati alla nostra umanità, siamo abituati a ringraziare Dio per le cose che ci dà, non per le cose che ci chiede e non pensiamo che quando Dio ci chiede qualcosa, prepara cose grande per noi, quelle che valgono per l’eternità. Quando Dio ci chiede o ci toglie cose a cui teniamo o quando siamo colpiti da sofferenze corporali o spirituali, prepotente entra in gioco la nostra umanità. Ci assalgono l’angoscia e il terrore e chiediamo – umanamente – condivisione della pena e la partecipazione a chi ci è vicino. Il parente, l’amico, anche il distante da noi.
Qual è, di solito, la reazione di coloro a cui ci rivolgiamo, ai quali chiediamo partecipazione al nostro dolore, alla nostra tristezza? La prefigura il Vangelo, perché è la stessa dei discepoli di Gesù. Quando Nostro Signore si reca al Getsemani, prende con sé tre dei Suoi discepoli, Pietro e i due figli di Zebedeo e dice loro di sedersi mentre Lui va a pregare (Mt 26, 36-39). Gesù comincia a provare tristezza e angoscia ed è questa l’ora in cui esprime tutta la Sua umanità, come quella che esprimiamo noi, quando ci sentiamo avvolti dalle cose della terra, che ci opprimono e ci allontanano da Dio. È proprio in quei momenti che il demonio ci assale e prende il sopravvento. Nel caso di Gesù, il demonio – che dopo le tentazioni del deserto, si era da Lui allontanato per ritornare al tempo fissato (Lc 4,13) – torna di nuovo all’attacco: è il momento della Passione e il principe di questo mondo fa affidamento sulla ripugnanza dell’Uomo-Cristo e della Sua carne per la sofferenza. Questa è la sua ora, è l’impero delle tenebre (Lc 22,53). Gesù deve condurre la sua battaglia contro Satana e questo prefigura anche l’itinerario dell’uomo che ha fede e che vive su questa Terra: la sua battaglia è quella che ha combattuto Gesù, contro il principe di questo mondo.
Ai Suoi amici, Gesù chiede aiuto, fa una richiesta: La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me. Aiutatemi con la preghiera – sembra dire – e aiutate anche voi stessi a fronteggiare le tentazioni che si avvicinano. Il Signore chiede compagnia nella preghiera, chiede di farlo sentire meno solo, di partecipare in qualche modo alla sua tristezza mortale. Gesù è dolcissimo e delicatissimo nel rivolgere quest’invito, tanto che avanza un poco (“alla distanza di un tiro di sasso”, secondo Luca, 22, 41) rispetto al luogo in cui si trovano i discepoli, perché forse li vuole preservare dalla visione della Sua angoscia e della Sua tristezza, della Sua lacerante e straziante agonia. Li vuole partecipi e li ama e nel momento della Sua estrema sofferenza. Il Suo è un pensiero e un agire d’amore per loro.
Nostro Signore si prostra con la faccia a terra e prega dicendo: “Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!” Le fonti storiche raccontano che si era in tempo di plenilunio e quindi i discepoli potevano vedere il Signore e forse potevano anche sentire le Sue parole. Ma i discepoli né vedono né sentono.
Gesù torna da loro e che cosa vede? Vede che dormono. Dice a Pietro, rimproverandolo: “Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me? Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carte è debole”.
Gesù si allontana di nuovo e prega, dicendo: “Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io beva, sia fatta la tua volontà”. Torna dai Suoi, ma anche questa volta i discepoli dormono. Si allontana e prega per la terza volta. Poi si avvicina ai discepoli. Tutto ormai sta per compiersi. Dice loro: “Dormite ormai e riposate! Ecco, è giunta l’ora nella quale il Figlio dell’Uomo sarà consegnato in mano ai peccatori. Alzatevi, andiamo: ecco, colui che mi tradisce si avvicina”.
Gli apostoli, quindi, non partecipano – come Gesù chiede loro ripetutamente in questa meravigliosa scena del Vangelo – alla tristezza mortale del Signore, all’ora terrena che sta per scoccare, al Suo martirio. Gli apostoli dormono. Se avessero vegliato forse avrebbero capito meglio, forse non sarebbero scappati.
Nel Vangelo non risulta mai che Nostro Signore chieda agli apostoli la partecipazione al Suo stato interiore di gioia ineffabile di unione con il Padre; non chiede mai la partecipazione alla Sua vita intima, in nessun altro tipo di sentimento o situazione spirituale. Chiede la partecipazione solo la sera del Getsemani, alla Sua tristezza mortale. Sembra dunque che l’unione tra Dio e gli uomini avvenga massimamente, in questa terra, nell’ora del Getsemani, dove il Signore non chiede tanto: chiede solo di essere consolato, di vegliare, di pregare. Chiede ai Suoi amici fedeltà, che è il solo modo per stare con il Signore.
Di sicuro noi vorremmo altro, ossia la condivisione della gloria e della gioia ineffabile di saperci e sentirci uniti a Gesù in quanto Verbo del Padre. Ma evidentemente per quella avremo tutto il tempo in Paradiso. Qui in terra l’unione con Gesù è quella richiesta nel Getsemani. Chi non crede vive le sofferenze nelle tenebre, chi crede le vive nella luce, anche se le prove esteriori aumentano. Per questo padre Pio diceva che la vita dei santi è “una vita da cani”. Padre Pio scherzava. In realtà, era felicissimo di vivere una vita da cani, perché non avrebbe barattato una sua Messa (nella quale soffriva enormemente) con null’altro al mondo. Perché, proprio nella Messa, viveva il senso dell’attesa dell’altra vita, partecipava al sacrificio e alla gloria del Signore. Che non gl’interessasse questa vita – come ripeteva Santa Monica, madre di Agostino – e la considerasse una “vita da cani”, sta nel fatto che questa vita, con le sue sofferenze, è proprio questo: attesa di compimento e di splendore. Il Signore ci chiede di rimanere qui, per qualche suo motivo. E ci stiamo. E, quel che più conta, il Signore ci chiede di rimanere qui a lui fedeli, da Santi, perché chiamati, giustificati, purificati e glorificati!
Se questa è l’unione con il Cristo, questa è anche l’unione con gli uomini, perché noi siamo uniti in Cristo per e con i nostri fratelli, attraverso l’amore che abbiamo ricevuto in dono, che riversiamo ai nostri fratelli. Trattiamo con amore, quindi – come ha fatto Cristo – anche coloro che non partecipano alle nostre sofferenze terrene. Preghiamo anche per loro, oltre che per noi. E non lamentiamoci mai con Dio. Non sentiamoci mai soli, anche quando c’è il vuoto intorno a noi e tutti ci abbandonano. La nostra solitudine non è mai totale, come disse Dio ad Elia, che si era lamentato di essere rimasto solo. “Ci sono altri settemila che non hanno piegato il ginocchio a Baal”, gli dice l’Altissimo. Dove fossero questi settemila, non si sa, ma c’erano. Così, con questa certezza, si può continuare la buona battaglia. Da servi inutili, a servizio fedele di Dio e di quei Monaci e Pastori – ve ne sono tanti – che soffrono e agiscono nel silenzio.