I tempi dei pagani, il castigo e l’attesa del Signore
Il peccato più grave di cui si macchiano gli esponenti dell’attuale gerarchia ecclesiastica è certamente quello d’ignorare la Parola del Verbo o di manipolarla e distorcerla a loro uso e consumo. Dico una cosa grave, ma è così e la Verità bisogna dirla tutta intera, altrimenti le si rende un cattivo servizio.
La lettera che il Verbo – la Persona Dogma – esprime, così com’è stata tramandata e custodita, rappresenta il tesoro più inestimabile posseduto dalla Chiesa e a nessuno, neanche al papa, è consentito ignorarla o stravolgerla, pena l’incorrere in un peccato irrimediabile agli occhi di Dio.
Si può ben dire, infatti, che il non attenersi a quella lettera – tenendo presenti le interpretazioni che il Magistero ne ha dato nel corso dei secoli – costituisce un attentato gravissimo alla fede. Chi lo fa, ne paga le conseguenze e dimostra la sua mancanza di fede, perchè destabilizza il credente rispetto al più grande lascito che egli possiede: la certezza della vita eterna se segue la Parola e gli insegnamenti del Cristo.
Fu quella Parola, inedita rispetto a qualsiasi parola conosciuta fino ad allora, a radunare le folle attorno a Gesù durante la Sua vita terrena e a scatenare l’odio di coloro che non potevano crederGli, perchè accecati dalla conservazione del potere e dalle grinfie del diavolo, che è signore di questa terra.
Attraverso quella Parola chi crede può leggere l’intera sua vita, le situazioni che affronta, i comportamenti che deve tenere. Nessun’altra Parola, nel corso dei secoli che si sono susseguiti dopo la morte del Cristo e la Sua resurrezione, ha mai potuto dialogare con le anime degli uomini con la stessa forza e la stessa profondità e così sarà fino alla fine dei tempi. Se si riesce a farne tesoro, è una Parola che guida e tempra la vita, consola e aiuta, sorregge e ammonisce.
Sì, ammonisce. Il modernismo è costretto a negare questa verità, perchè predilige – per sua natura, è nato per questo – assecondare i desideri del mondo, che non desidera essere ammonito, ma blandito, assecondato, giustificato rispetto a tutte le perversioni che pratica, a tutti i peccati che consuma, a tutti gli abomini di cui è protagonista.
In questo senso, la parola del Cristo è scandalosa: perché non segue le voluttà mondane, ma si riferisce sempre alla Vita vera, quella a cui l’essere umano è destinato fin dal suo concepimento, sin dalla sua origine nel pensiero di Dio.
Per questo, di fronte alla Parola del Cristo, l’uomo sapiente, che ha timore di Dio, molto spesso trema. Perchè Cristo traccia per l’uomo un itinerario terreno molto impegnativo, che non si può prendere alla leggera, ma richiede grande forza e tenacia, grande perseveranza e grande coraggio.
La Chiesa della Misericordia, quella che è nata dalla prassi che è seguita al Concilio Vaticano II e che nel tempo ha demolito le certezze della fede, fino ad arrivare a volerne fare a meno negli ultimi sette anni, rifiuta soprattutto una dimensione della lettera: la Giustizia divina, alla quale si lega il castigo che Dio riserva all’uomo peccatore.
Sul castigo che proviene da Dio, la Parola del Cristo – che è in stretta continuità con la Sacra Scrittura dell’Antica Alleanza – è assolutamente chiara. E’ impossibile non coglierne il significato. Può farlo solo chi non crede a quella Parola.
Vediamo solo alcuni dei passi del Vangelo dove Cristo richiama il concetto di Giustizia divina e fa intendere che chi trasgredisce incorre nel castigo.
Il Primo dei Vangeli sinottici, quello di Matteo, nella descrizione della genealogia di Gesù, cita la deportazione in Babilonia del popolo ebraico, di cui si parla in 2 Re, 24-25. Si adempivano, con la deportazione, le minacce dei profeti nei confronti del popolo d’Israele e dei suoi re, puniti per la loro infedeltà ai comandamenti della legge di Dio, specialmente al primo.
In Mt, 3, 7-12, San Giovanni Battista, nel vedere farisei e sadducei venire al suo Battesimo, dice loro: «Razza di vipere! Chi vi ha suggerito di sottrarvi all’ira imminente? Fate dunque frutti degni di conversione, e non crediate di poter dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre. Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre. Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più potente di me e io non son degno neanche di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito santo e fuoco. Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile».
Il giudizio è costituito da due fasi. La prima riguarda la vita di ogni uomo ed ha come conclusione il giudizio particolare, la seconda il giudizio universale. Di entrambe, è Cristo il giudice. Dice San Pietro in At 10, 42: «E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che Egli (Gesù) è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio».
Il giudizio non sarà un abbraccio, come sostiene Bergoglio nel suo ultimo libro sul Credo, ma assegnerà a ciascuno il premio o il castigo relativo alle sue buone o cattive azioni.
C’è di che aver timore. O no?
Soffermiamoci sul termine pula. Non significa solo le azioni cattive, ma quelle futili e vacue, cioè una vita priva di servigi, a Dio e agli uomini. Dio, quindi, giudicherà della nostra vita anche le opportunità non sfruttate. Non siamo nati, non siamo stati creati da Dio, non viviamo per condurre una vita sterile, senza significato, priva di qualsiasi ancoraggio alla dimensione soprannaturale.
Non c’è solo da avere timore. C’è da tremare!
Nella parabola del servo spietato (Mt 18, 23-35), Gesù insegna il dovere del perdono, utilizzando la figura del servo a cui il padrone aveva condonato il debito, ma che poi non aveva avuto pietà di un suo debitore, facendolo incarcerare. Venuto a conoscenza dell’accaduto, il padrone prima gli disse «Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?» e poi lo diede in mano agli aguzzini, finchè non gli avesse restituito tutto il dovuto. Gesù dice: «Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello».
Ancora più chiara rispetto al discorso che interessa è la parabola degli invitati alle nozze (Mt 22, 1-14), dove Gesù definisce il regno dei cieli simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio. «Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire. Di nuovo mandò altri servi a dire: Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e i miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze. Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze. Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale, gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senza abito nuziale? Ed egli ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».
Che cosa insegna questa parabola?
Dio chiama tutti gli uomini alla salvezza, che nella parabola è rappresentata dal banchetto, che adombra il regno dei cieli. Alla chiamata di Dio – che non ammette scuse, nel senso che non può esistere alcun interesse umano che ragionevolmente vi si può opporre – l’uomo può rispondere con il rifiuto volontario, che merita il castigo divino. «Le nozze», dice san Gregorio Magno, «sono le nozze di Cristo con la sua Chiesa e l’abito è la virtù della carità. Entra infatti nella sala del banchetto, senza avere l’abito nuziale, che stando nella santa Chiesa ha la fede, ma non la carità» (In Evangelia homiliae, 38). L’abito nuziale simboleggia le disposizioni – la rispondenza alla Grazia – con le quali si entra nel regno dei cieli. Chi non le possiede, anche se appartiene alla Chiesa, sarà condannato nel giorno del giudizio.
Nel Vangelo di Matteo, dopo la parabola del fico, quella delle dieci vergini e quella dei talenti, segue il passo sul giudizio finale (Mt 25, 31-46). E’ Cristo a dire: «Quando il figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti I suoi angeli, si siederà sul trono della Sua gloria».
Il giudizio sarà rigoroso e definitivo, nel senso di inappellabile. La scena grandiosa di quest’atto finale – la riunione di tutte le genti e la separazione gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri – farà rientrare ogni cosa nell’ordine della giustizia. Questa sentenza – che si distingue dal giudizio particolare – sarà la conferma pubblica e solenne della sorte già toccata agli eletti e ai reprobi.
Nel passo sono insegnate alcune verità fondamentali della fede cristiana: 1) l’esistenza di un giudizio universale alla fine dei tempi; 2) l’identificazione che Cristo fa di sé con ogni persona bisognosa: affamato, assetato, ignudo, ammalato, carcerato; 3) la realtà del supplizio eterno per i malvagi e della felicità eterna per i giusti.
E’ bene soffermarsi un attimo – in tempi di buonismo d’accatto come quelli che viviamo – sul secondo aspetto. Dalle parole di Cristo – chi vuole capire, capisca – emerge in maniera evidente che il cristianesimo non può essere ridotto ad una pratica di mera beneficenza. Ogni aiuto in favore del prossimo acquista valore soprannaturale – ed è questo il punto-chiave, perchè il cristiano, come dice Cristo, è nel mondo, ma non è del mondo – solo se viene prestato per amore di Cristo, intuito nella persona dei bisognosi. Per questa ragione san Paolo afferma: se anche distribuissi tutte le mie sostanze (…), ma non avessi la carità, niente mi giova. E’ quindi del tutto arbitraria e sbagliata ogni interpretazione di quest’insegnamento di Cristo relativo al giudizio finale che presuma attribuirgli un significato materialistico o che confonda la mera filantropia con l’autentica carità.
Nel Vangelo di Luca (21, 20-36), Nostro Signore ammonisce la Chiesa e gli uomini in maniera severa. Predice la distruzione della Città Santa, Gerusalemme («Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, sappiate allora che la sua devastazione è vicina»), che la Tradizione Cattolica considera figura della Chiesa. Nell’Apocalisse, infatti, la Chiesa trionfante è chiamata la Gerusalemme Celeste (Ap 21, 2). Applicando questo passo alla Chiesa, le sofferenze della Città Santa possono essere considerate figura delle avversità cui la Chiesa pellegrinante andrà incontro in ragione dei peccati degli uomini. «Gerusalemme», dice Gesù, «sarà calpestata dai pagani finchè i tempi dei pagani siano compiuti».
Che cosa accadrà nel mondo?
«Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con potenza e gloria grande. Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perchè la vostra liberazione è vicina».
Gesù riferisce a se stesso la profezia di Daniele (7, 13-14). Tutto l’universo tremerà davanti al Signore, che verrà in potenza e gloria. Gli uomini contempleranno la potenza e la maestà del Figlio dell’uomo, che verrà a giudicare i vivi e i morti. Alla fine del mondo tutto sarà ricapitolato in Cristo e Dio regnerà definitivamente su tutte le cose (Cor 15, 24-28).
L’invito di Gesù è quello di rimanere vigili. «State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita», afferma «e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso; come un laccio esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia della terra. Vegliate e pregate in ogni momento, perchè abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accedere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».
L’espressione «ira di Dio» è usata da Gesù nel Vangelo di Giovanni (3, 31-36). Dice: «Colui che viene dall’alto è al di sopra di tutti; ma chi viene dalla terra, appartiene alla terra e parla della terra. Chi viene dal cielo è al di sopra di tutti. Egli attesta ciò che ha visto e udito, eppure nessuno accetta la sua testimonianza; chi però ne accetta la testimonianza, certifica che Dio è veritiero. Infatti colui che Dio ha mandato proferisce le parole di Dio e dà lo Spirito senza misura. Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa. Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio incombe su di lui».
E’ così rivelata la divinità di Cristo, la Sua relazione con il Padre e lo Spirito Santo e la partecipazione alla vita eterna e divina di coloro che credono nel Signore. Fuori della fede non c’è vita nè speranza di salvezza.
«Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finchè è giorno», aggiunge Gesù (Gv 9, 4-5), «poi viene la notte, quando nessuno può più operare. Finchè sono nel mondo, sono la luce del mondo».
Il mondo ha scelto la notte.
Nell’ottobre del 2019, nella Chiesa S. Maria in Traspontina è avvenuto l’abominio. E’ entrata una processione con in testa monsignori e vescovi, che portavano a spalla una canoa amazzonica sulla quale troneggiava la «pachamama»: un feticcio in legno di ominide femminile incinta (la madre terra), simbolo pagano della fertilità.
Il Vescovo emerito dell’Amazzonia, Mons. Josè Luis Azcona, dichiarò a questo proposito: «La Pachamama e la Madre Terra sono le dee come Cibele o la dea Astarte venerata in Babilonia, entrambe espressione della fecondità della donna. L’invocazione alle statuette di fronte alle quali anche alcuni religiosi si sono inchinati in Vaticano (e non dico la congregazione di appartenenza…) sono l’invocazione di un potere mitico, quello della Madre Terra, alla quale si chiedono benedizioni su tutta l’umanità o gesti di gratitudine. Sono sacrilegi demoniaci che producono scandalo soprattutto per i piccoli che non sanno discernere (…). La Madre Terra non deve essere adorata perché tutto, anche la terra, è sotto il dominio di Gesù Cristo. Non è possibile che ci siano spiriti che abbiano un potere pari o superiore a quello di Nostro Signore o della Vergine Maria. La Pachamama, non è e non sarà mai la Vergine Maria. Dire che quella statua rappresenta la Madonna è una bugia. Non è la Signora dell’Amazzonia perché l’unica Signora dell’Amazzonia è Maria di Nazareth. Non facciamo mescolanze sincretiste. Tutto ciò è impossibile: la Madre di Dio è la Regina del Cielo e della terra».
Eppure, davanti all’altare maggiore di quella gloriosa chiesa, furono accese grandi candele in onore dell’idolo. La canoa venne deposta ai piedi di Bergoglio e dei suoi accoliti e con canti e preghiere fu celebrato un incredibile rito tribale. Il cardinale Pedro Barrera affermò: «Questa sera il Paradiso è in terra!». Dice un mio caro amico: «Il tempo non è ancora compiuto… altrimenti, come profetizzato, sarebbero stati messi a morte con un soffio».
Perdendo la prospettiva del castigo e della Giustizia divina, l’uomo rinuncia a distinguere il bene dal male e si condanna da solo. Perché l’uomo è in grado di sapere già tutto. Il Cristo l’ha già rivelato. La Chiesa l’ha confermato per due millenni, ma gli uomini malvagi – sobillati e sostenuti nella loro azione dal principe dei demoni e dai suoi potentati – hanno demolito la Rivelazione, mirando a rendere vano il Sacrificio di Nostro Signore.
Così, i tempi dei pagani hanno preso il sopravvento, nell’attesa che Nostro Signore – Re del Cielo e della Terra – trionfi nella Sua Gloria e nella Potenza. Appelliamoci alla Misericordia di Dio e rendiamola possibile con la nostra umile testimonianza, la nostra fedeltà e il nostro amore per Lui. Che Suo Figlio ritorni presto, perché la nostra vita su questa terra, senza di Lui, non vale nulla.