L’anima in Dio
In uno dei suoi numerosi scritti, san Francesco di Sales (1567-1622) racconta la storia del sacerdote Saprizio e del laico Niceforo, che si svolse sotto il regno dell’imperatore Valeriano (200-260 d.C.). I due erano stretti dalla più intima amicizia, ma poi divisi da un odio implacabile vicendevole.
Niceforo non tardò a riconoscere il suo errore, e per tre volte aveva fatto giungere a Saprizio umili scuse e proteste di sottomissione, a cui in risposta il sacerdote con grande fierezza aveva sempre negato. Niceforo fa un altro tentativo: vola da lui, gli si getta ai piedi e ne implora il tanto desiderato perdono; ma Saprizio di nuovo lo respinge con disprezzo. Frattanto ecco infierire la persecuzione: Saprizio, esposto ad un’infame tortura, rimasto fermo nella Fede, è condannato alla morte, che accetta contento per amore di Dio. Niceforo ne è ammirato e addolorato ad un tempo. Saputo il luogo e l’ora del supplizio, egli muove incontro a Saprizio che viene condotto al patibolo: «O Martire di Cristo, perdonami chè t’ho offeso», gli dice tutto in lacrime, prostrato a terra. Saprizio non risponde, e il buon laico a seguirlo, a rinnovare una seconda, una terza volta la sua umile supplica, finchè giunti entrambi ai piedi del patibolo, di nuovo egli si getta dinanzi al sacerdote e tra i singhiozzi ripete: «Ti supplico, o Martire di Cristo, perdonami: sta scritto: “Domandate e otterrete” – Matt. VII, 7»).
Il cuore inflessibile di Saprizio non si piega e rifiuta ostinatamente di far misericordia, e Dio, giusto giudice, lo priva della palma del martirio. Infatti, mentre il carnefice sta per troncargli il capo, Saprizio perde improvvisamente il coraggio e chiede in grazia che lo si lasci in vita, promettendo sacrifici agli idoli pagani. Niceforo nell’udire queste parole scoppia in lacrime e scongiura il sacerdote a non rinnegare Gesù Cristo, a non perdere la corona del martirio. Saprizio, che aveva osato salire l’altare senza essersi prima riconciliato col suo nemico, privo così del divino soccorso, precipitò nell’idolatria. Niceforo, invece, toccato dalla celeste ispirazione s’avanza, si dichiara cristiano, implora il martirio e l’ottiene: era il 9 febbraio dell’anno 260.
“L’amabile Cristo di Ginevra”, come i suoi contemporanei chiamavano san Francesco di Sales, commenta: «Storia spaventevole, degna d’essere profondamente meditata. Che terribile caduta! Sembrava a quell’infelice d’aver dato tutto a Dio: gli restava invece molto ancora da fare: non aveva sacrificato l’odio brutale verso l’offensore, e per questo meritò di piombare dalle altezze del martirio nell’abisso dell’infedeltà. È dunque vero che non basta amare Dio più della nostra vita: subire la morte per la gloria del Suo Nome è certo un atto eccellentissimo di carità, ma ci vogliono insieme tutti quegli altri atti virtuosi che Dio richiede da noi, atti comuni, ordinari, che debbono essere praticati con zelo, fortezza e costanza. Morire per Iddio è atto sublime; volere unicamente quest’atto, rigettando gli altri, non è carità, è piuttosto vanità, ipocrisia.
La carità non è bizzarra; essa non può permettere che si piaccia a Dio in cose difficili e gli si dispiaccia in cose minori più blande. Come può volere la morte per amore di Dio, chi non vuol vivere secondo Dio? Non si conosce sempre chiaramente (mai poi con certezza assoluta), se noi abbiamo quel sincero ed efficace Amor di Dio, che si richiede per essere salvi; vi son però dei segni, tra i quali il più sicuro e quasi infallibile è la preferenza che diamo a Dio sopra ogni creatura, ripetendo all’occasione con San Michele Arcangelo “Chi è come Dio?” – quale bontà risiede nelle creature, che possa attirare il nostro cuore ad aderirvi, sprezzando Dio e ribellandosi al suo amore?
Questa è la prova più tangibile e sicura che il Divino Amore regna nei nostri cuori, purchè non ci arrestiamo solo ai sentimenti, i quali, per dolci e teneri che siano, a nulla valgono, se non vanno congiunti alla fortezza e generosità, le sole virtù capaci di farci sacrificare tutto per amore di Dio: tutto diciamo, assolutamente tutto, senza eccezione, nè riserva alcuna, pur di conservare la grazia santificante, l’amicizia di Dio, malgrado le difficoltà, le ripugnanze, le rivolte della natura e dell’amor proprio. Vi sono di quelli che abbandonano coraggiosamente i beni, gli onori, la vita stessa per Nostro Signore, eppure non sanno tante volte decidersi di rinunciare ad un’idea per divino Amore.
Vivere secondo Dio è osservarne tutta la Legge, tutti i Comandi, niente rifiutargli, mai nulla anteporgli. Strana follia dello spirito umano: piccole inezie bastano talora a trattenerci nella via dell’obbedienza e dell’amore. Stiamo in guardia; c’è un’eresia in materia d’amore come in materia di Fede: questa consiste nel rigettarne anche un solo articolo, quella nel fare la scelta tra i Comandi divini per praticarne alcuni e violarne altri: errore grandissimo nell’amore, che vuole tutto senza la minima esclusione.
L’atto della vera Carità deve procedere da un amore generale, esclusivo, universale, tale che si estenda a tutti indistintamente gli ordini di Dio: escluderne uno solo, equivale ad escluderli tutti, e per conseguenza l’amore di Carità esulerebbe totalmente dal nostro cuore».
Parole inattuali quelle di san Francesco di Sales, perchè della Carità il mondo in cui viviamo non sa letteralmente cosa farne. Di conseguenza, mancando la Carità, viviamo in un mondo che si è privato di Amore, perchè – come dice san Paolo – la Carità è Amore. Non stiamo parlando della carità pelosa, quella che vuole propinare la Chiesa della Misericordia. Stiamo parlando della virtù teologale della Carità: l’amore a Dio come bene supremo e al prossimo per amore di Dio.
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