Nel giorno del mio compleanno…
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Nel giorno in cui la Chiesa ricorda la grande santa Scolastica (480-547), sorella gemella di san Benedetto da Norcia (480-547), fondatore del Monachesimo occidentale, compio 69 anni. In realtà, settanta se si considera che la vita spirituale inizia dal concepimento, come la Tradizione, la Dottrina e la Sacra Scrittura della Chiesa Cattolica ha sempre dichiarato: «Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo», dice santa Elisabetta, che porta nel suo grembo san Giovanni Battista alla Santa Vergine Maria (Lc 1, 39-56). Tanto per ricordare a coloro, anche cattolici, che hanno concorso all’affermazione dell’ideologia abortista, quanto il loro destino eterno sia irrimediabilmente segnato.
Voglio dedicare questo compleanno alla mia famiglia d’origine, con una pagina tratta dal mio libro autobiografico Da servo di Pannella a figlio libero di Dio: «Ho perso i miei genitori nell’arco di tre mesi, nel 1992. Prima venne a mancare mio padre Antonio, per un infarto. Neanche lo vidi morire: ero a Roma. Era fuori casa e chiamò mia madre, dicendole che non si sentiva bene e che sarebbe andato in ospedale. Morì da solo. Traspare dalle sue fotografie, soprattutto quelle giovanili, che ora conservo come un caro ricordo, la sua gioia di vivere che – con l’incidere degli anni – si spense. Dovetti dirgli, qualche settimana prima della sua morte, della prognosi che i medici avevano fatto per mia madre, alla quale qualche mese prima era stato estratto un occhio per un tumore al bulbo. Le avevano dato sei mesi di vita. Lui si commosse profondamente. Fu la prima volta che lo vidi indifeso nei confronti della vita. Non avevo mai avuto un buon rapporto con lui, sin da bambino. Tra lui e mia madre c’erano incomprensioni e litigi continui e io non mi identificavo nei suoi comportamenti. Piansi molto davanti alla sua salma, nell’obitorio dell’Ospedale di Bari, rimpiangendo di non essere riuscito a parlargli prima che morisse ed anche perché sapevo che di lì a poco – e così avvenne, tre mesi dopo – anche mia madre ci avrebbe lasciati. Morì di metastasi al fegato, che produssero un’emorragia renale. Scelsi, per tutto quel tempo, di non starle accanto e di rimanere a Roma. L’andavo a trovare di tanto in tanto. Lei sapeva che si stava spegnendo, ma non ne parlava e non si lamentava mai. Il giorno della sua morte, Dio volle che mi recassi a Bari la mattina. La sera, morì tra le mie braccia. Annamaria era una donna bellissima, elegante, con uno sguardo mite e generoso. Conobbe mio padre nel 1955. Si sposarono quello stesso anno. Figlia unica, viveva con sua madre – rimasta vedova da giovanissima – che poi crebbe me e mio fratello e visse sempre con noi. Penso che mia madre amasse mio padre. Di certo sbagliò, ora posso dirlo, a riversare su noi figli, anche da piccoli, le problematiche della sua vita coniugale, ma le responsabilità, in questi casi, non sono mai da una parte sola. L’amavo molto. La morte quasi contemporanea dei miei genitori fu una prova durissima da sopportare ed elaborare. Anche perché sopravvisse mia nonna Filomena, la madre di mia madre, alla quale ero molto legato e che dopo la morte dei miei genitori rimase sola. Aveva 91 anni, con una esplosiva gioia di vivere e una lucidità fuori dal comune. Era elegante, anche lei. Ci teneva. I capelli erano sempre molto curati: seduta al letto della sua stanza, li pettinava molto a lungo la mattina, mentre borbottava. Quando usciva, portava sempre la borsa, con tutte le sue cose ordinate, un foulard alla gola, il collo di pelliccia sul cappotto, quando era inverno e vestiti bianchi e neri, di seta, quando era estate, oltre ad un bastone che le serviva per l’artrosi. Andava ogni giorno in chiesa, fino a quando ha potuto, a recitare il Rosario e ad ascoltare la Messa. Avevo quindi il problema – morti i miei genitori – di occuparmi di questa persona che, nonostante le sue sofferenze, per tutta la sua vita mi aveva regalato il suo sorriso, un mondo di bene e di amore. Sbagliai a non portarla con me a Roma e me ne rammarico ancora oggi, profondamente. Scelse lei il luogo dove vivere. Una casa per anziani a Turi, dove fu trattata, penso, con amore. Dopo qualche mese, lì realizzò della morte di mia madre. La portarono in una clinica. Lo seppi mentre partecipavo a una delle tante riunioni radicali, a Sabaudia. Accanto a me c’era Emma Bonino. “Che cosa hai?”, mi chiese. “Sono molto preoccupato per mia nonna, dicono che non parla più”, risposi. “Sai, a molte persone in età avanzata capita. Poi non si riprendono più. Fattene una ragione”, replicò con la sua solita delicata dolcezza. “Devo andarla a trovare. Sono sicuro che si riprenderà”, provai a dire. “Io aspetterei. Se vai oggi o fra tre giorni, è la stessa cosa. Lasciala morire serena. E poi non puoi mancare a questa riunione così importante, nella quale si decideranno tante cose”, affermò la Bonino. Mi lasciai convincere. Le riunioni erano tutte importanti e decisive, per il mondo che si doveva salvare solo grazie ai radicali. Partii subito dopo la riunione. Andai da lei, che appena mi vide disse: “Danilo, dove l’hai portata tua madre, in carcere?”. Compresi che aveva bisogno solo di parlare con qualcuno e di ricevere affetto. Il dolore, realizzato solo in quei giorni, per la morte della sua unica figlia, con la quale aveva vissuto sempre insieme, era stato troppo grande. Stetti con lei qualche giorno. Si riprese. Visse, sempre lucida, per ancora due anni. Continuai quasi quotidianamente a sentirla e, quando potevo, mi recavo da lei. Il primo gennaio del 1996 – nella stessa notte in cui, cinquantasei anni prima, era morto suo marito, l’unico uomo della sua vita – se ne andò, serenamente, nel sonno. Come un soffio di vento. Nel suo sorriso c’era tutto un mondo di bene e di amore per la vita. Quando l’andai a trovare, vidi un fiore deposto su di lei. Forse di quel signore che, dicevano, quasi della sua stessa età, avrebbe voluto diventare il suo fidanzato, perché le voleva bene. I vecchi, lasciati soli e abbandonati, serbano nei confronti della vita l’inquietudine della loro sensibilità, la nostalgia dei momenti sereni, il desiderio di vivere ancora i loro sentimenti, di farsi amare e di amare. Non devono essere mai lasciati soli. La sera prima di morire, mia nonna, al telefono, mi aveva chiesto: “Danilo, tutto bene con Pannella?”. Era come un suo presentimento (…) ».
Come avrete compreso, ho conosciuto subito, sin dall’infanzia, che cos’è la vita terrena: sofferenza. Questa è la realtà della vita, esattamente l’opposto di quello che insegna la cultura dominante, che vorrebbe far intendere che noi viviamo per soddisfare i nostri desideri e per godere, tanto Gesù Cristo – come dicono i luterani e la Chiesa Modernista – si è sacrificato per noi, ha espiato i nostri peccati e noi siamo già salvi.
Tardi ho compreso il valore della sofferenza, che significa offrire ogni singolo dolore, fisico e spirituale, ai piedi della Croce di Nostro Signore Gesù Cristo. Solo così questa nostra vita terrena si trasforma, si vivono le situazioni ed i rapporti umani per quello che sono: mezzi per arrivare al nostro fine ultimo, Dio. La vita scorre molto velocemente. Senza accorgecene si arriva alla sua fine e all’incontro con Nostro Signore. Da povero peccatore so che prepararsi ogni giorno a quest’incontro e praticare ogni giorno il Bene, rinnegando tutto quello che il mondo, che è nemico di Dio, propone, è l’unica speranza di salvarsi dalle fiamme dell’Inferno nella vita vera, che è eterna. È per volere di Dio che ora nel Suo Regno grano e zizzania vivono insieme, ma nel giorno del Giudizio saranno separati. Operiamo perchè si accresca il numero degli eletti e quel tempo si avvicini.
Ringrazio tutti coloro che in questi anni hanno letto i miei libri e sostenuto le mie pubblicazioni, così come ringrazio Dio per aver consentito la mia conversione e di servirLo.
Vi voglio bene.
Un caro saluto in Cristo e Maria,
Danilo Quinto
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