Se ci sarà un «dopo», che «dopo» sarà?
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.
(Dante, Commedia, Canto XXVI, verso 19)
Per la quasi totalità delle persone la certezza è doppia: il dopo ci sarà e sarà più bello di prima.
L’«andrà tutto bene», accompagnato dalle canzonette di Sanremo, dai balletti sui balconi, da «Bella Ciao», dai colori dell’arcobaleno e in attesa degli «abbracci», che dovrebbero risolvere tutto, ha questo significato:
siamo noi i padroni assoluti e incontrastati del nostro futuro.
Questo accade mentre le persone che hanno bisogno non hanno ancora ricevuto, in Italia, nemmeno un euro per sopravvivere; mentre nel Sud, lasciato per decenni nelle mani delle organizzazioni criminali, già si manifestano i primi segnali di «rivolta»; mentre il Governo si affida alla Scienza, che ha un solo consiglio da dare: «restate a casa»; mentre, a causa dei 37 miliardi tagliati negli ultimi vent’anni nella sanità, in onore dei patti scritti con l’Europa dei tecnocrati e dei burocrati, sembra si sia costretti a scegliere chi deve morire e chi deve vivere; mentre i mezzi militari sfilano per le strade di Bergamo per trasportare in altre città le bare dei morti, che non trovano più posto nel cimitero; mentre, fino a 20 giorni fa, quando i morti erano qualche centinaia (oggi si avvicinano ai 10.000, almeno quelli contati), si facevano circolare, sui canali informativi pubblici, voci di scienziati che sostenevano si trattasse solo di un’influenza, intere giunte comunali si facevano fotografare nei ristoranti cinesi per dare solidarietà, in nome dell’«antifascismo», si organizzavano aperitivi pubblici per «non fermare l’Italia»; mentre, con l’accondiscendenza della Chiesa, si sono chiuse le chiese, non si possono celebrare i matrimoni religiosi (ma quelli civili, sì) e i funerali, non si può pregare e non si può assistere alla Santa Messa, mentre si possono acquistare sigarette e giornali e si può fare la corsetta e far fare la pipì al cane; mentre medici e infermieri muoiono in tanti perchè, dopo due mesi dalla dichiarazione di stato di emergenza per epidemia, che indicava la data della sua fine al 31 luglio, senza darne adeguata comunicazione, ancora non sono stati dotati di mascherine e degli altri strumenti di protezione, come avviene per i farmacisti, per gli impiegati dei supermercati, dei servizi pubblici essenziali, delle forze dell’ordine … ; mentre aumentano i suicidi, tra chi soccorre i malati e tra le persone che sono chiuse nelle loro case, abbandonate a se stesse, sia in quanto malati sia in quanto vecchi lasciati in solitudine.
Abbiamo paura, perchè è inevitabile avere paura, ma nulla ci può distogliere dal nostro impegno quotidiano: aggrapparci alle cose della terra e non vedere il Cielo.
Possiamo tutto e vogliamo tutto. Il «grido rivoluzionario» del ’68, icasticamente coniato da Nanni Balestrini per il suo libro del 1971 – «Vogliamo tutto», appunto – spiega, a distanza di oltre cinquant’anni, l’«andrà tutto bene».
Quel «grido» ha seminato tanto e bene nel nostro Paese. Bisogna ammetterlo, proprio in questo momento. L’uomo vuole che «andrà tutto bene», è convinto che «andrà tutto bene» e «vuole tutto». Sa che il suo volere può e deve divenire potere. Quel «grido» è divenuto ideologia dominante, totalizzante. Pensiero unico, incontrastato e, ormai, incontrastabile.
E’ inutile girarci attorno. La certezza dell’uomo deriva da un delirio. Un’«alterazione della coscienza», così come la definisce la psicoanalisi. L’uomo può tutto e la sua Scienza diventa Potere, si trasforma in Tecnocrazia e asseconda questo potere assoluto dell’uomo. Lo sostiene e lo alimenta. Erige una forma di dittatura – senza precedenti rispetto al passato – sull’uomo e dell’uomo, determinando sia le sue scelte sia i suoi comportamenti.
Quale altra parola, se non «delirio», può meglio definire questa condizione patologica in cui si trova l’uomo contemporaneo?
Sono io a creare quello che mi circonda. Posso non solo crearlo, ma modificarlo, manipolarlo e adattarlo a seconda delle mie esigenze e dei miei desideri. Della mia libertà, che esercito senza alcun tipo di vincolo. Perchè la libertà non mi è stata donata. Me la sono presa e basta. Me la prendo ogni giorno, ogni momento della mia vita, quando e come voglio. Non c’è nulla che viene prima di me, a cui io debba soggiacere e obbedire.
La mia vita è regolata dalle leggi che mi confeziono su misura, che saranno sempre giuste e amministrate sempre secondo giustizia, perchè lo stesso concetto di giustizia è solo mio. Io ne sono il titolare, lo confeziono e lo modifico a seconda delle circostanze. E’ del tutto relativo. Ne sono io l’autore e lo uso quando e come mi pare e piace. Non può essere condizionato da nulla, non può rispondere a nulla che sta sopra le leggi.
Sopra le mie leggi, esiste solo il nulla, il vuoto. E’ solo la mia coscienza a decidere quello che è bene e quello che è male. Solo a lei devo rispondere.
Insomma, l’uomo dice di se stesso: «Io sono».
Il Figlio di Dio ha usato la stessa espressione per definire se stesso: «Io sono».
Incontrando i Giudei, dice loro (Gv 8, 21-30):
«Io vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato. Dove vado io, voi non potete venire».
I Giudei, che non capiscono, replicano: «Forse si ucciderà, dal momento che dice: Dove vado io, voi non potete venire?».
Gesù risponde, per chiarire: «Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo. Vi ho detto che morirete nei vostri peccati; se infatti non credete che io sono, morirete nei vostri peccati».
Quelli chiedono: «Tu chi sei?».
Gesù risponde: «Proprio ciò che vi dico. Avrei molte cose da dire e da giudicare sul vostro conto; ma colui che mi ha mandato è veritiero, ed io dico al mondo le cose che ho udito da lui».
I Giudei non capiscono che parla di Suo Padre e Gesù aggiunge:
«Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono e non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo. Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite».
Quando Gesù dice di se stesso «Io sono», svela la sua origine divina: rivela di essere Dio.
Quale altra grande ambizione può avere l’uomo «di questo mondo» se non quella di imitare Dio, ribellandosi alla Sua potestà, così com’è indotto a fare da quella realtà fisica e spirituale che per prima si oppose a Dio, perchè avrebbe voluto essere come Lui?
«Sarete come Dio», dice il serpente alla Donna che viene sedotta (Gen 3, 5).
Allora, se mi garba, posso provare ad essere come Dio, come accettò di essere il primo Uomo, che è il responsabile principale dell’originaria ribellione a Dio e del conseguente peccato originale, che marca ogni singolo individuo fino alla fine dei tempi.
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Posso sciogliere quello che Dio ha legato per sempre. Distruggo le famiglie e la società, in omaggio al mio desiderio che si veste di libertà.
Sono solo io – uomo – a stabilire, prima in modo clandestino e poi per legge, che sia cosa buona e giusta dare e togliere la vita quando voglio.
Posso anche crearla in laboratorio, la vita. La chiamo fecondazione assistita omologa, se uso gameti (ovuli e spermatozoi) appartenenti a entrambi i membri della coppia che la richiede, oppure eterologa, attraverso gameti provenienti da un terzo soggetto estraneo alla coppia (una donna che fornisca l’ovulo o un uomo che fornisca il seme). Tecniche programmate di riproduzione e di dissoluzione insieme all’uso di un linguaggio appropriato, che serve per nascondere l’iniquità.
Posso eliminare le vite che non mi piacciono. In fondo, che cos’è un embrione, se non un «grumo di cellule» di cui ci si può sbarazzare? Allora, organizzo gli screening della popolazione in gravidanza grazie alle tecniche di selezione prenatale, così faccio sparire dalla faccia della terra quegli orribili bambini down e quegli sgorbi di bambini che presenterebbero altro tipo di malformazioni. Che orrore! Se qualche piccolo essere sfugge ai controlli – ma è raro, perchè la tecnica è diventata sofisticata – sono stato previdente: ho previsto in alcuni Paesi, sempre per legge, la sua soppressione alla nascita.
Basta incunearsi in una comunità, poi le altre seguiranno le indicazioni, per spirito di emulazione o per convinzione indotta.
Io amo il bello e il buono. Perciò, quando non la voglio o non mi piace, mi accanisco su una creatura di quattro o trentasei settimane: un essere che posso eliminare senza tanti problemi e buttarlo poi nei rifiuti speciali, senza neanche una degna sepoltura e senza versare una lacrima.
Le lacrime? Non mi appartengono. Non so cosa siano. Io vivo per godere! Solo per questo. Ho diritto alla mia felicità!
Posso evitare che la vita nasca, facendo l’amore quando mi pare e piace, godendo della mia concupiscenza, delle pulsioni della mia carne, prevenendo la nascita con una pillolina o usando gli altri strumenti che la scienza mi mette a disposizione e se mi accorgo che la vita è nata, nonostante le precauzioni prese, posso prendere un’altra pillolina che la distrugge senza raschiare nulla, eliminando sangue e cellule, rischiando anche la morte. Nella maggior parte dei casi è un fai-da-te. Abortisco nel bagno di casa mia. Che comodità!
Se non ho tempo e voglia per recarmi in un ospedale o non trovo i soldi per pagare la clinica o devo coprire la gravidanza, per salvaguardare la mia immagine sociale, la mia crudeltà, la mia ipocrisia e la mia menzogna, posso attendere – nascondendola – la nascita della vita che ho in grembo e metterla in una lavatrice o nel cassonetto dell’immondizia.
Magari accompagno anche le mie figlie adolescenti ad abortire. Qualche minuto e via. Tanto, poi, non ci penso più e, se ci penso, ci sono sempre gli psicofarmaci, alla bisogna. Per me e per chi ha abortito. Tanto hanno detto che il peccato di aborto lo può assolvere anche il prete in confessionale. C’è chi mi aiuta!
Forse perchè sa che sono stati proprio i cattolici – e tra questi soprattutto coloro che hanno praticato l’aborto – a concorrere con la loro ignavia, in maniera determinante, all’approvazione di quelle leggi abortive (firmate da cattolici) che nella sola Italia hanno sterminato 6 milioni di persone in 40 anni. Hanno bisogno anche loro – questi cattolici – di quella Misericordia che si compra al supermercato, un tanto al chilo e che disprezza Dio, nella Sua intima nozione di Padre, che è Padre Misericordioso solo in quanto esprime la Sua Misericordia insieme alla Sua Giustizia. Altrimenti si tratterebbe – come spiega San Tommaso d’Aquino – solo di dissoluzione.
Anche della morte decido io. Come mi garba e quando mi garba. Accompagnare un uomo alla «dolce morte» o suicidio assistito, com’era chiamato un tempo? Non è più reato. L’ho deciso io e la «mia» giustizia è d’accordo con me. Fa quello che le dico. Prona e servile.
Non sono ancora andato più in là, garantendo la soppressione dei vecchi legalizzata – ora c’è solo quella «strisciante» – perchè i vecchi, padri e nonni, ricevono la pensione e quella mi fa ancora comodo, finchè dura. Ora, il virus mi sta sottraendo anche le pensioni, perchè nella scala dei parametri che si devono considerare al fine di scegliere chi deve vivere e chi deve morire, l’età ha un ruolo importante.
I malati terminali, in ogni caso, non hanno scampo. Posso farli fuori se hanno dato il loro consenso. La sofferenza la devo debellare dalla faccia della terra. Qui si gode!
Sono peggio dei nazisti. Loro operavano da criminali e, in fondo, molti di loro sapevano di essere degli psicopatici criminali. Io mi convinco di essere un eroe, un operatore del bene comune, un salvatore dell’umanità e così mi rappresento al palcoscenico di un’umanità che mi apprezza e inneggia entusiastica al mio buon senso.
I bambini? Posso manipolarli come voglio con le realtà virtuali che costruisco per loro, perchè non ho più cultura, non sono più in grado di insegnarli nulla, di ascoltarli, di trascorrere del tempo con loro. Li affido alle risorse che la tecnologia mette a disposizione, mettendoli totalmente allo sbaraglio o a persone a loro estranee, che dovrebbero supplire alla mia mediocrità e alla mia inettitudine. Preferisco occupare il loro tempo, piuttosto che farli crescere nell’autonomia della responsabilità.
Posso anche esprimere tutta la mia gioia di pedofilo e violentarli, se mi aggrada. Nei seminari o in famiglia. Non fa differenza.
L’incesto? Non è un problema. Anzi, anche qui si gode. Eccome, se si gode. Hanno fatto anche una legge, tempo fa, con cui hanno equiparato i figli nati dall’incesto ai figli legittimi. Qualche timido dissenso di facciata, tanto per dare un contentino ad un’ipotetica etica e ad un’ipotetica morale, che non esistono più, poi tutti si sono allineati, come un sol uomo.
Posso anche maltrattarli – i bambini – psicologicamente e fisicamente o farli andare in guerra, o farli lavorare, sfruttandoli o abbandonarli nelle strade o lasciarli vivere nelle fogne, in mezzo ai topi e alle acque marce.
Posso anche insegnare che se nati maschi possono diventare femmine e viceversa o rimanere maschi, ma amare i maschi, nascere femmine, ma amare le femmine e poi cambiare ancora nel corso della vita, sesso e identità e poi cambiare ancora, in modo fluttuante, fluido, a seconda del tempo che scorre e dei miei sacri umori. In alcuni casi, se i bambini esprimono l’idea di cambiare sesso, li faccio operare subito, prima che giungano alla pubertà. Bisogna guadagnare tempo. Questo mondo consuma tutto e in fretta. Bisogna adeguarsi ai suoi repentini cambiamenti, alla moda che si evolve, che va al di là del tempo e lo attraversa, direbbe qualcuno.
Posso celebrare matrimoni tra maschi e maschi e tra femmine e femmine, per poi magari – quando ci sono castighi – chiedere la protezione della mia città da parte della Santa Vergine Maria. Senza pudore, senza timore, senza pentirmi e senza giurare davanti a Lei di non farlo più.
Posso concedere a due maschi di andarsi a comprare in giro per il mondo il frutto del loro amore pagando l’affitto di un utero. Basta un utero, qualsiasi utero, per diventare padre. Tanto, lo pago. Nel caso di due femmine è più semplice: posso ricorrere all’inseminazione artificiale, basta che non conosca il nome di chi ha donato il seme. Lo chiamo «atto d’amore». Comprato.
Il linguaggio mi aiuta: elimino le parole «padre» e «madre» e le sostituisco con le parole «genitore A» e «genitore B».
Chi giudica le mie azioni e i miei comportamenti? Nessuno. E’ vietato giudicarli. Ha detto qualcuno: «Chi sono io per giudicare?». Il «retto giudizio» che insegnava Gesù? Un retaggio del passato. Siamo nella modernità.
Seguo un modello d’ingegneria sociale. L’ho chiamato «Finestra di Overton». Lancio un’idea, all’inizio impensabile, inaccettabile, vietata, che poi conosce delle eccezioni.
Piano piano – grazie alla comunicazione, che mi è serva disponibile – quell’idea s’insinua, striscia, s’inerpica nei neuroni del cervello. Diventa, così, accettabile, sensata, razionale, di buon senso. Si diffonde e viene legalizzata, divenendo legge. Uno schema collaudato e che funziona sempre. Provare per credere.
Così, è stata distrutta la Metafisica, che ha governato la vera, profonda, spirituale speculazione umana sin dai tempi più antichi.
La filosofia moderna, da Cartesio in poi, ha «risolto» la Metafisica nel «principio d’immanenza», sinonimo di un’«autonomia assoluta», di una «Soggettività» onnicomprensiva, da cui tutto emana e in cui tutto si risolve, nel quale tutto «è» e tutto «diviene». Se tutto è «nell’uomo», tutto è anche «dell’uomo» e «per l’uomo», che perciò emerge come «unico Soggetto» a cui tutto deve attribuirsi quale «Centro» da cui s’irradia, «fine» a cui tende, «fondamento» che a tutto conferisce consistenza, stabilità, significato.
Scriveva padre Enrico Zoffoli:
«Ammesso il primato dell’individuo, l’immanenza assoluta fa degenerare la “soggettività” in “solipsismo”, sinonimo di “scetticismo” e “nichilismo”. Se presumo di affermare solo me stesso come soggetto pensante, in me apro un vuoto infinito in cui resto dissolto, scompaio».
L’immanentismo si conclude col rifiuto di Dio. Se il mondo è l’unica realtà necessaria, increata, autosufficiente, e il suo più alto vertice è «nell’uomo, in tutto l’umano», inevitabile è un «umanesimo ateo», negatore della creazione e della Provvidenza, di una Soprannatura e di ogni possibile Rivelazione positiva. Dio resta solo come immanente necessità razionale e se Egli non esiste come «l’Assoluto-Altro», non resta che la «natura», che nell’uomo ha la sua più vera sintesi.
Sopprimendo la «verità-in-sé dell’essere», il principio d’immanenza consente a ciascuno di possedere la propria verità, che, opponendosi a quella degli altri, non è quella in cui tutti possono convenire: la verità assoluta, capace di imporsi in sé e per sé, e quindi oggettiva e universale, è impossibile.
Nel campo religioso, non occorre altra premessa per dichiarare «vere» tutte le religioni, comprese le più incompatibili, contraddittorie. Ne consegue che qualsiasi religione può ritenersi rispettabile come prodotto della «fede», del «sentimento», di «tradizioni», «abitudini» ed altri fattori. Possono portare tutte alla «Felicità Universale».
Spiega Padre Zoffoli:
«Negata la verità oggettiva e assoluta dei dogmi, il Cristianesimo non sarebbe altro che la religione dell’amore, che a ciascuno lascia la libertà di credere tutto quello che vuole: al difetto delle “idee” (con le quali si avrebbe la pretesa di cogliere l’”essere-in-sé”, la “Trascendenza”…), supplisce l’impulso dell’amore del prossimo, che in definitiva sarebbe quello che l’Uomo porta istintivamente a se stesso, irriducibilmente chiuso nell’orizzonte dell’immanenza, ove tutto per lui ha un senso e merita considerazione. Siamo perciò all’ecumenismo agnostico, pluralista, umanitario e fondamentalmente ateo. Ecumenismo della mutua comprensione o della tolleranza di tutte le confessioni religiose, fondata sull’unità della “Coscienza Umana Universale”, che – nel processo storico – le crea e distrugge, le modifica e rinnova. Ecumenismo volto di quel “mondialismo” di tipo massonico che, nel rifiuto del Dio Creatore e della Legge Eterna, mira ad abbattere il Cristianesimo quale più eminente religione positiva».
Così come è stata distrutta la Metafisica, così sono state annichilite le Istituzioni laiche.
Quasi tutte si sono disintegrate. Sono scomparse – così – le leggi una volta giuste, è stata sostituita l’amministrazione delle leggi con l’arbitrio, si è liquefatto il sistema di controllo sui sistemi economici, bancari e finanziari.
Quest’azione è stata naturalmente mascherata, è stata dissimulata la sua opera distruttiva, ma nello stesso tempo è stata confezionata una cornice perfetta: i pochi intimi che ne governano l’uso e l’abuso – membri di sotto-ordini massonici che hanno di mira il nuovo ordine massonico mondiale – oleano i meccanismi e sanno che l’aspetto della legalità deve rimanere sacro. Altrimenti il «gioco» viene scoperto.
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Che altro posso fare? Beh, posso fare tante altre cose.
Io sono Mammóna, altrimenti detto Baal o Belzebù.
Posso violentare le donne. Altri oggetti, come i bambini. Talvolta ucciderle, se mi va. E’ un godimento feroce, ma sempre godimento è.
Posso far circolare dovunque la droga, che elimina ogni anno milioni di esseri umani ed altri milioni li rende schiavi del denaro che si devono procurare per acquistarla, rubando o spacciando, mentre alimenta il guadagno dei narcotrafficanti, in grado di comprarsi interi Stati.
Posso concedere a persone di ogni età che si trastullino in giochi a pagamento consentiti dalle leggi, che procurano ogni anno dieci miliardi di fatturato, rendendo le persone preda di una malattia da dipendenza, che mi piace tanto.
Posso anche consentire che i giovani consumino alcool quando vogliono, combinandolo con pillole sintetiche, per poi uccidersi ogni anno a migliaia con le macchine comprate dai loro padri.
Posso organizzare il commercio di carne umana, facendo arricchire le bande criminali che gestiscono il traffico dei migranti, che mi servono per creare una nuova etnia meticcia, sostituire la popolazione, renderla meglio manipolabile e meglio asservita ai miei obiettivi.
Posso bestemmiare, rubare, desiderare la roba e la donna d’altri, non onorare mio padre e mia madre, dire falsa testimonianza, commettere atti impuri, non santificare le feste, nominare il nome di Dio invano.
Poi, posso uccidere milioni e milioni di essere umani, con le guerre che scateno e l’odio che le alimenta. Oggi, i conflitti riguardano 69 Stati. Sparse per il mondo ho organizzato 831 milizie, gruppi guerriglieri e terroristici. Un record! Me ne faccio un baffo dell’invito dell’Onu di cessare i conflitti.
L’Onu, poi. Lo sanno anche le pietre: un baraccone inutile, insieme a tutte le sue Agenzie, che brucia ogni anno centinaia di miliardi di dollari, per il suo mantenimento, al servizio dei gruppi massonici da cui dipende totalmente, che finanziano le campagne antinataliste in giro per il mondo, perchè – dicono questi illustri magnati, crudeli e spavaldi «padroni del vapore» – nel mondo gli uomini sono troppi. Occorre una «decrescita felice». Grazie a loro, grazie ai loro progetti e al loro denaro, mi sono dato il compito di sterminarli, con la bomba atomica, con i missili termonucleari, con le migliaia di miliardi che ogni anno vengono spesi per le armi, sottratti al miliardo e mezzo di uomini che combattono con la piaga della fame.
Per provare cosa potrebbe accadere, posso scatenare – anche in laboratorio, poco importa, la mia megalomania è sovrabbondante di idee – malattie e epidemie sconosciute, a cui seguono sempre le carestie e le guerre.
Che godimento vedere gli uomini morire senza sacramenti. Da soli. Negli ospedali o nelle loro case. Senza il conforto dei loro cari. Senza poter essere vestiti, restando nudi, con i loro corpi disinfettati con cura, avvolti da materiale isolante. Senza funerali. Inceneriti nei forni crematori. Altro che «Resurrezione della carne». I loro corpi diventano cenere e le loro anime restano per sempre mie.
Posso delegare il governo del mondo a piccole elites che nelle loro riunioni segrete – impenetrabili, a cui partecipa chi, all’interno dei vari Paesi, ha il compito di diffondere gli «ordini» che vengono dati – decidono il destino di miliardi di persone. Fanno programmi di selezione mentale e fisica delle masse per soggiogarle, per farle vivere nell’ignoranza, nella mancanza di cultura, per sottrarle il sapere e nella povertà, per renderle disperate. Così arricchiscono il loro patrimonio, che raccoglie il 90% dell’intero patrimonio materiale dell’umanità.
Posso creare entità sovranazionali, come l’Europa, la cui identità è stata inoppugnabilmente consacrata da duemila anni al Cristianesimo e che ora, avendo perso qualsiasi tipo di legame con Cristo, è divenuta un’agglomerato di popoli senza identità, un territorio abbruttito, miscredente e ateo.
Un luogo dove si uccidono la sovranità e la dignità degli Stati, per delegare il potere nelle mani di pochissimi, che in nome della libertà, della fraternità e dell’eguaglianza e di una categoria che mi sono inventato – il «nuovo umanesimo» – si sono avocati il diritto di stampare moneta, di regolare i rapporti economici, di imporre patti di stabilità e regole di bilancio che tagliano gli investimenti pubblici, azzerando i benefici del Welfare, di decidere se e come un Paese sia degno di essere aiutato nei momenti di crisi.
Rendo, così, un servizio alla gnosi, che è nemica di Dio, ne nega l’esistenza e che esiste sin dai tempi in cui il Figlio di Dio è venuto ad abitare in mezzo agli uomini.
Posso fabbricare idoli, al posto di Dio, a cui chiedo obbedienza e devozione. Sono capace di farli accogliere con tanto di riverenza e rispetto all’interno della Casa di quell’Uomo-Dio che ho tentato nel deserto per quaranta giorni e quaranta notti e poi ancora quando Lui si rivolse al Padre Suo, nell’«ora delle tenebre» che avevo preparato.
Lui mi ha resistito. Questa è la mia vendetta nei Suoi confronti. Gliel’avevo promesso. Lui è più forte di me, ma mi ha lasciato libero di operare ancora un pò, perchè vuole mettere alla prova i Suoi discepoli, che devono fare i conti ancora con me.
Ecco che lo sfido con l’abominio che organizzo davanti al Santissimo Sacramento, dove si presenta una processione con in testa monsignori e vescovi, che portano a spalla una canoa amazzonica sulla quale troneggia la «pachamama»: un feticcio in legno di ominide femminile incinta (la madre terra), simbolo pagano della fertilità.
Vengono accese grandi candele in onore dell’idolo e viene celebrato un rito tribale. Un cardinale afferma: «Questa sera il Paradiso è in terra!».
La Sacra Scrittura (Esodo 20, 2-6) dice: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi».
Nessuno, tra i pastori – che conoscono la Sacra Scrittura – ammonisce sul fatto che il sacrilegio e la blasfemia consumata impongono il pentimento e il perdono di Dio, pena la Sua condanna?
La risposta già l’aveva data mons. Francesco Beschi, vescovo di Bergamo e presidente di «Missio», organismo pastorale della Cei che si occupa di missioni. Nell’aprile del 2019, in vista del Sinodo sull’Amazzonia, aveva fatto stampare un opuscolo intitolato « Bien Vivir» («vivere bene»), «per animare sulle tematiche dell’Amazzonia le comunità, i gruppi e le scuole in Italia», nel quale era contenuta questa «preghiera»:
«Pachamama di questi luoghi, bevi e mangia a volontà questa offerta, affinché sia fruttuosa questa terra. Pachamama buona madre, sii propizia! Sii propizia! Fa che i buoi camminino bene e che non si stanchino. Fa che la semente spunti bene, che non succeda nulla di male, che il gelo non la distrugga, che produca buoni alimenti. A te lo chiediamo: donaci tutto. Sii propizia! Sii propizia».
Ora, Bergamo conta solo i suoi morti.
Hanno cambiato anche le parole dell’unica preghiera che il mio nemico ha insegnato, il Padre Nostro.
Hanno eliminato il «non ci indurre in tentazione», che sanciva il Suo dominio su di me, trasformandolo in «non ci abbandonare alla tentazione», che riconosce un’eguaglianza di potestà tra me e Lui.
Mi hanno fatto un grande servigio e io li ringrazio, come ringrazio il mio nemico che mi concede di operare. Per ora.
Io so che sono stato sconfitto per sempre con il Suo sacrificio e con la Croce. Il mio tempo è breve e lo devo consumare in fretta e al meglio delle mie possibilità.
In fondo, nulla è cambiato, per gli uomini, dopo la Croce. Sono immersi nel peccato come lo erano prima e non colgono l’àncora di salvezza che ha gettato per loro, con il Suo Sacrificio, il mio nemico.
Continuano ad oltraggiare la Sua Parola, facendo il mio gioco e rendendoLo – sul piano umano – il più grande fallito della storia dell’umanità.
Posso eliminare la morte dall’orizzonte umano, come se fosse una categoria astratta, come se la vita non avesse termine, scopo, finalità. Come se la Terra fosse uguale al Cielo o non ci fosse il Cielo al di là delle nubi che sovrastano la Terra. Come se non ci fossero Nuove Terre e Nuovi Cieli, perchè il Paradiso è già qui, su questa Terra, la nostra Madre Terra, dalla quale tutto proviene e tutto dipende, che viene adorata nella Chiesa che fu eretta per la gloria del primo Vicario sulla Terra del mio nemico, costruita sui resti delle sue ossa, che si possono vedere, quasi toccare, perchè sono custodite all’interno di una piccola urna dietro un’altare che si trova nella cripta di quelle mura. Quell’uomo lo tentai più volte, con il permesso di Cristo, che gliel’aveva anche preannunciato. Lui si pentì ed obbedì a Cristo fino alla fine. Quando vide per l’ultima volta il suo Maestro sulla via Appia, nel punto in cui incrocia l’Ardeatina, gli chiese «Quo vadis, domine?» ed ascoltò questa risposta: «Vado in città a farmi crocifiggere un’altra volta». Comprese che quelle parole erano rivolte a lui, che stava andando via da Roma per le persecuzioni che subivano i figli di Dio e fu consapevole che era giunta la sua ora. Si pentì, tornò indietro e si fece crocifiggere a testa in giù, perchè non si riteneva degno di subire il martirio nello stesso modo in cui l’aveva subito il suo Maestro.
Disprezzo quello che posso fare e proporre di fare e disprezzo l’uomo che compie e mette in pratica quello che propongo. Sono nato angelo, del resto. Poi sono diventato una bestia immonda, l’essere più crudele e malvagio mai esistito. Ma io esisto – e lo riconosco – perchè Dio stesso mi ha permesso di esistere. I miei alleati più grandi sono coloro che affermano che io non esisto. Lo crediate o no, sono la maggior parte di coloro che vestono i paramenti sacri. Ho lavorato bene in tutti questi anni.
Non credono più in niente e soprattutto nell’essenziale, nelle «ultime cose», quelle che una volta erano il cuore del Catechismo: la Morte, il Giudizio (particolare e universale), l’Inferno, il Paradiso. Non ne parlano, perchè non credono. D’altra parte, sono liberi.
E’ questo l’aspetto più importante del dono che Dio ha dato alle mie prede: ha donato loro la libertà. Loro possono scegliere tra me e Lui. Io sono invidioso della loro libertà. Io non la possiedo questa libertà. Sono condannato per sempre. Non posso fare nessuna scelta. Dio mi ha detto: «Perché hai fatto questo, sii maledetto fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali dei campi! Tu camminerai sul tuo ventre, e mangerai polvere tutti i giorni della tua vita. E io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la progenie di lei; questa progenie ti schiaccerà il capo, e tu le ferirai il calcagno» (Gen 3, 15-15).
La mia nemica è proprio Lei. Quella Donna Santissima, la Nuova Eva, che accettò con umiltà il messaggio che gli diede il mio ex collega Gabriele.
Da quell’istante, Lei è diventata la mia nemica. Quando accettò con obbedienza e umiltà la volontà di Dio e disse: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1, 38).
È lei, con queste parole, ad indicare all’umanità la strada della salvezza. Maria si abbandona alla volontà di Dio. Lo fa con fede viva, oltre che con purezza, umiltà, candore, obbedienza. La Sua obbedienza a Dio è frutto della Sua scelta di libertà. È questa l’essenza del Cristianesimo e ce la insegna per prima Maria. Da quel momento, Lei diviene custode della Verità rivelata, mediatrice tra l’umanità e Dio, attraverso il Figlio che il Suo grembo immacolato porterà alla luce.
Fu ancora Lei a rivelare al mondo l’esistenza del mio nemico.
«Non hanno più vino» (Gv 2, 3), disse a Cana, Maria a Gesù; che le rispose: «Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora» (Gv 2, 4). La risposta sembra indicare che il Suo intervento, in quel momento, non rientrasse nel disegno divino, ma l’intervento di Maria Lo indusse a esaudire la richiesta. Maria disse ai servi: «Fate quello che vi dirà». Si compì così il primo miracolo di Gesù, che testimonia la potenza dell’intercessione di Maria presso Dio, che darà ascolto a tutte le domande che Gli giungeranno attraverso la Mediatrice. L’invito di Maria ai servi è rivolto a ciascun essere umano. Maria implora l’umanità di seguire la volontà di Suo Figlio. Di amarLo, così come Lei Lo ha amato. È il messaggio della salvezza.
Fu quello il primo dei Suoi miracoli. Ne seguirono molti altri.
Moltitudini di uomini Gli credettero e Lo seguirono.
Ho tentato di fermarLo con tutti i mezzi che avevo a disposizione.
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Egli aveva digiunato per 40 giorni e 40 notti. Gli proposi di trasformare i sassi in pane. Lo tentai perchè sapevo che aveva fame e volevo scoprire se veramente fosse Figlio di Dio. Avvertivo come un controsenso il fatto che il Figlio di Dio avesse fame. Egli mi rispose con le parole del Deuteronomio (8, 3): «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4, 4).
L’hanno ignorata questa risposta coloro che, con disinvoltura, prima, per alcuni decenni, hanno aperto la Casa del Signore ai banchetti dei poveri e dei migranti, per dar loro da mangiare senza neanche leggere la Parola di Dio e chiedere la conversione, poi – nell’emergenza – hanno trasformato la Chiesa in un’associazione patriottica, al servizio dei voleri dello Stato, decidendo di chiudere le chiese, di privare i fedeli dell’Eucaristia, di non celebrare i funerali, mentre bar, ristoranti e supermercati sono rimasti aperti.
E’ lo stesso «patto» che si è consumato in Cina, quando la Chiesa di Roma ha riconosciuto la Chiesa Patriottica – che obbedisce al regime, non a Cristo – e umiliato la Chiesa dei martiri, che ha combattuto la dittatura per ottant’anni versando il suo sangue.
La seconda tentazione fu quella di usare la Sacra Scrittura a mio vantaggio. Lo portai con me nella città santa. Deponendolo sul pennacolo del Tempio, Gli dissi: «Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poichè sta scritto: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perchè non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede”» (Mt 4, 5-6).
Usando la stessa Sua tecnica, citare la Sacra Scrittura, indicai così agli eretici del tempo a venire – e furono in tanti coloro che seguirono questo mio insegnamento, da Maometto a Martin Lutero, oggi omaggiato con una statua in Vaticano, da Karl Rahner alla maggior parte dei membri della gerarchia post-conciliare – di presentarsi come «esegeti» del Testo Sacro, tenendo presente solo la loro convenienza.
Egli, che si era lasciato trasportare da me sulle mura del tempio, senza opporsi – come non si oppose, successivamente, a coloro che lo processarono e lo misero in Croce – conosceva l’intera Scrittura e la citò, in quella circostanza, in modo assai appropriato. Disse: «Sta scritto anche: “Non tentare il Signore Dio tuo”» (Mt 4, 7).
Il monito del Deuteronomio (6, 16) si collegava al passo dell’Esodo (17, 2) nel quale gli Israeliti, non avendo più acqua, invocano da Mosè un miracolo e questi risponde: «Perchè mettere alla prova il Signore?».
Chi oggi afferma che un elemento della preghiera è quello di «rivolgersi a Dio con coraggio, quasi minacciandolo», ignora o dolosamente dimentica che domandare o addirittura esigere da Dio prove e segni straordinari, si configura come una tentazione rivolta al Signore.
Portai, poi, il mio nemico su un monte altissimo, mostrandogli tutti i regni del mondo con la loro gloria e gli dissi: «Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai» (Mt 4, ).
Egli mi rispose: «Vattene, satana! Sta scritto: “Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto”».
Le Sue parole furono durissime. Non valevano solo per «quei tempi» e per coloro che attendevano l’instaurarsi di un messianesimo temporalistico – che avrebbe portato come conseguenza la riduzione della Sua missione, da divina e trascendente a terrena – ma «per tutti i tempi» ed in particolare per la Chiesa, perchè questa rifuggisse dalla tentazione di divenire soggetto mondano, per dedicarsi alla sua divina missione di salvezza eterna. Abbiamo visto com’è andata a finire, almeno fin qui. Li ho costretti ad occuparsi delle cose terrene: della disoccupazione, della povertà materiale, dei migranti, della politica degli uomini.
L’anima? L’hanno cancellata. La fede? L’hanno annientata.
Quel «Vattene, satana!» sentenzia la mia condanna. Fino alla fine dei tempi.
Gesù vuole dire agli uomini di non dialogare con me. Di prendermi sul serio. Di perseverare nella lotta contro di me. Dice la Sacra Scrittura: «Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita» (Ap 2, 10).
Gli uomini non Gli sono stati fedeli e non lo sono stati sin dall’inizio. Hanno preferito me a Lui.
Nell’«ora dell’impero delle tenebre» (Lc 22, 53), tornai all’attacco contro di Lui, mentre pregava sul Getsemani. Egli chiese a Pietro e ai due figli di Zebedeo, di vegliare su di Lui, di aiutarLo con la preghiera a superare la Sua tristezza mortale e le tentazioni che si stavano avvicinando. Loro Lo abbandonarono. Si addormentarono. Una prima volta li svegliò. E pure una seconda volta, chiedendo di nuovo aiuto, sostegno, condivisione. Quando tornò definitivamente da loro, disse queste parole: «Dormite ormai e riposate! Ecco, è giunta l’ora nella quale il Figlio dell’Uomo sarà consegnato in mano ai peccatori. Alzatevi, andiamo: ecco, colui che mi tradisce si avvicina».
Infatti, stavano per essere raggiunti dal mio capolavoro: Giuda. Il discepolo che Lo consegnò ai Suoi carnefici.
Il «povero uomo pentito», dice oggi qualcuno, che aggiunge, mistificando: «Perfino Giuda, proprio mentre lo consegnava ai suoi avversari, si è sentito chiamare ‘amico’ da Gesù».
Il mio nemico sapeva chi fosse Giuda: «Non ho forse scelto io voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!», disse (Gv 6, 70).
Il termine «amico», rivolto a Giuda, è un’allocuzione amara, che non prelude a nessun dialogo.
San Paolo, riferendo quanto gli aveva detto Pietro, scrive negli Atti degli Apostoli: «Fratelli, era necessario che si adempisse ciò che nella Sacra Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda, che fece da guida a quelli che arrestarono Gesù. Egli era stato del nostro numero e aveva avuto in sorte lo stesso nostro ministero. Giuda comprò un pezzo di terra con i proventi del suo delitto e poi precipitando in avanti si squarciò in mezzo e si sparsero fuori tutte le sue viscere. La cosa è divenuta così nota a tutti gli abitanti di Gerusalemme, che quel terreno è stato chiamato nella loro lingua “Akeldamà”, che vuol dire “Campo di sangue”. Infatti, sta scritto nel libro dei Salmi: “La sua dimora diventi deserta, e nessuno vi abiti, il suo incarico lo prenda un altro”. Bisogna dunque che tra coloro che ci furono compagni per tutto il tempo in cui il Signore Gesù ha vissuto in mezzo a noi, incominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di tra noi assunto in cielo, uno divenga, insieme a noi, testimone della sua risurrezione”».
Giuda non fu il solo a tradirLo. Nel momento del Suo supplizio, Lo tradirono tutti i Suoi discepoli, che scapparono e lo rinnegarono. Tranne Giovanni, che con Sua Madre sostò ai piedi di quella Croce, dalla quale il mio nemico, rivolgendosi al Padre Suo, chiese di perdonare coloro che lo stavano assassinando, «perchè non sanno quello fanno» (Lc, 23, 34).
Il Suo, lo riconosco, fu un atto grandioso d’amore. Con quell’amore mi sconfisse. Manifestò, con quelle parole, il Suo amore sconfinato anche per i Suoi nemici, per quell’umanità che Lo stava mettendo a morte e suscitò, in quel luogo chiamato Cranio, una straordinaria e commovente conversione, un miracolo:
«Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!”. Ma l’altro lo rimproverava: “Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male”. E aggiunse: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Gli rispose: “In verità ti dico, oggi sarai con me nel Paradiso”» (Lc 23, 39-43).
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Accanto a Gesù, che sceglie di affrontare il martirio sulla Croce per la salvezza dell’intera umanità, ci sono due persone, nella stessa situazione. La prima lo insulta e bestemmia. La seconda si pente dei suoi peccati. Così, il «buon ladrone» – San Disma – «si aggrappa all’unica speranza che gli era rimasta», scrive Giuseppe Ricciotti, nella sua fondamentale «Vita di Gesù Cristo» e riceve più di quanto ha chiesto.
Scrive Sant’Ambrogio: «Il Signore concede sempre più di quanto gli si domanda: il ladrone chiedeva unicamente che Gesù si ricordasse di lui, ma il Signore gli dice: “In verità ti dico, oggi sarai con me nel Paradiso”. La vita consiste nell’abitare insieme con Gesù Cristo e dove è il Signore ivi è il Suo regno».
Ne «Il testamento di Tito», Fabrizio De Andrè fa dire al buon ladrone: «Ma adesso viene la sera e il buio mi toglie il dolore dagli occhi e scivola il sole aldilà delle dune, a violentare altre notti; io nel vedere quest’Uomo che muore, madre, io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore».
Se non si considera il pentimento, si abolisce anche il peccato, che è una scelta cosciente. Un atto di volontà egoistico, che si contrappone a Dio, alla Sua legge e quindi alla Verità, quella che Gesù Cristo ha rivelato e che si rivolge anche contro il prossimo e contro se stessi. E’ il pentimento dei propri peccati, la via attraverso la quale si può ricevere la misericordia di Dio e, quindi, la salvezza. Dare per sottintesa la questione del pentimento, significa non considerare che alla fine dei tempi la porta sarà comunque stretta per coloro che su questa terra avranno negato Dio. «Non posso più trattenere a lungo il braccio della giustizia di mio figlio, che è già troppo pesante», disse la Santa Vergine a Fatima.
Nel Vangelo, la questione del pentimento è sempre presente negli incontri che Gesù ha con le persone. Sono incontri rivolti solo a questo: alla conversione del peccatore e alla sua salvezza. A null’altro.
E’ la storia di San Matteo – l’esattore dei tributi per conto dei Romani, un ufficio odiato, ma anche ambito per la facilità con cui ci si arricchiva nel svolgerlo – così descritta da Beda il Venerabile:
«Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi” (Mt 9, 9). Vide non tanto con lo sguardo degli occhi del corpo, quanto con quello della bontà interiore. Vide un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: “Seguimi”. Gli disse “Seguimi”, cioè imitami. Seguimi, disse, non tanto col movimento dei piedi quanto con la pratica della vita. Infatti “chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato ” (1 Gv 2, 6). “Ed egli si alzò, e lo seguì” (Mt 9, 9). Gesù lo guardò con sentimento di pietà e lo scelse. Non c’è da meravigliarsi che un pubblicano alla prima parola del Signore, che lo invitava, abbia abbandonato i guadagni della terra che gli stavano a cuore e, lasciate le ricchezze, abbia accettato di seguire colui che vedeva non avere ricchezza alcuna. Infatti lo stesso Signore che lo chiamò esternamente con la parola, lo istruì all’interno con un’invisibile spinta a seguirlo. Infuse nella sua mente la luce della grazia spirituale con cui potesse comprendere come colui che sulla terra lo strappava alle cose temporali, era capace di dargli in cielo tesori incorruttibili» («Omelia sui vangeli», 1,21).
È la storia di Zaccheo: «Entrato in Gerico, Gesù attraversava la città. Ed ecco un uomo, chiamato Zaccheo, che era sovrintendente degli esattori del fisco e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non ci riusciva a causa della folla perché era piccolo di statura. Corse dunque avanti e per poterlo vedere salì sopra un sicomoro, perché doveva passare di là. Quando Gesù arrivò sul posto, alzò lo sguardo, e gli disse: Zaccheo, presto, vieni giù perché oggi debbo fermarmi a casa tua. Egli discese in fretta e lo accolse con gioia in casa. E tutti, vedendo ciò, incominciarono a mormorare dicendo: È andato ad alloggiare in casa di un peccatore. Ma Zaccheo, fattosi avanti, disse al Signore: Ecco, Signore, la metà dei miei beni la dono ai poveri, e a quelli che ho frodato restituisco il quadruplo. Disse allora Gesù a lui: Oggi in questa casa è entrata la salvezza, perché anche lui è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lu 19, 1-10).
È la storia dell’adultera: «Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed ella rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù disse: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”» (Gv 8, 1-11).
Gesù – che viene messo alla prova da persone che, in forza di quel che prevede la legge per una persona che si macchia di adulterio, intendono lapidarla – insegna che se si può giudicare il peccato, non si può esprimere un giudizio sulla persona che pecca, perché il giudizio spetta a Dio; libera la donna dalle sue colpe e la perdona, dopo che lei l’ha riconosciuto come «Signore», che è un titolo messianico; chiama ancora peccato il comportamento che la donna ha commesso, non ne minimizza le conseguenze e la invita a non peccare più.
È la storia della donna cananea (Mt 15, 21-28). La commenta così Beda il Venerabile: «Il Vangelo offre alla nostra considerazione la grande fede, la sapienza, la perseveranza e l’umiltà della Cananea. Questa donna era dotata di una pazienza non comune. Alla sua prima richiesta, il Signore non risponde nulla (Mt 15, 23). Ciò nonostante, continua a implorare con insistenza il soccorso della sua bontà… O donna, grande è la tua fede; ti sia fatto come desideri (Mt 15, 28). Sì, possiede una grande fede. Pur non conoscendo né gli antichi profeti né i recenti miracoli del Signore, né i suoi comandamenti e le sue promesse, e in più respinta da lui, ella persevera nella sua richiesta, non smette di insistere con colui che la fama gli aveva indicato come il Salvatore. E così la sua preghiera viene esaudita in modo strepitoso. Il Signore le dice: Ti sia fatto come desideri; e in quel momento la figlia della donna guarì. Quando qualcuno ha la coscienza macchiata dall’egoismo, dall’orgoglio, dalla vanagloria, dalla collera, dalla gelosia o da qualche altro vizio, ha, come quella Cananea, una figlia crudelmente tormentata da un demonio (Mt 15, 22). Corra perciò a supplicare il Signore di guarirla… e lo faccia con umile sottomissione; non si giudichi degno di partecipare alla sorte delle pecorelle d’Israele, delle anime pure, e si consideri indegno della ricompensa del cielo. La disperazione tuttavia non lo spinga a desistere dalla preghiera, ma abbia una fiducia incrollabile nell’immensa bontà del Signore. Colui che ha potuto trasformare un ladrone in un confessore della fede, un persecutore in apostolo e semplici pietre in figli di Abramo, sarà anche capace di trasformare un cagnolino in una pecorella d’Israele… Vedendo l’ardore della nostra fede e la tenacità della nostra perseveranza nella preghiera, il Signore finirà per aver pietà di noi e ci accorderà quello che desideriamo. Una volta messa da parte l’agitazione dei nostri cattivi sentimenti e sciolti i nodi dei nostri peccati, la serenità di spirito tornerà in noi unitamente alla possibilità di agire correttamente. Se, nell’esempio della Cananea, persevereremo nella preghiera con fede incrollabile, la grazia del nostro Creatore verrà in noi, correggerà in noi tutti gli errori, santificherà tutto ciò che è impuro, pacificherà ogni agitazione. Il Signore infatti è fedele e giusto; egli perdonerà i nostri peccati e ci purificherà da ogni bruttura se grideremo a lui con la voce implorante del nostro cuore».
È la storia della peccatrice che non ha nome. Dice Gesù: «Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco» (Lu 8, 47). L’uomo non può meritare il perdono dei peccati, perché essendo Dio l’offeso, la loro gravità non ha limiti. È necessario, quindi, il sacramento della Penitenza, col quale Dio rimette i peccati per i meriti di Suo Figlio. Una sola condizione è richiesta per ottenere il perdono: il nostro amore, il nostro pentimento, che è la prova che amiamo Dio. Ma è Dio colui che per primo ci ha amato (Gv 4, 10). Quando Dio ci perdona, manifesta il suo amore per noi. Il nostro amore a Lui, di conseguenza, è sempre un amore di contraccambio, perché viene dopo il Suo.
È la straordinaria storia della conversione della samaritana (Gv 4, 1-42). Gesù rivolge alla samaritana le parole «Dammi da bere». La Sua non è un’esigenza solo fisiologica, ma spirituale: ha sete di salvare le anime. Per questo dona la Sua vita sulla Croce e per questo agisce con la Grazia – l’«acqua viva» – nei confronti di questa donna, che diventa disponibile a conversare con Lui, che era giudeo, gli confida i suoi sentimenti religiosi (cita Giacobbe), gli chiede l’acqua che non dà più sete, riconosce in Gesù – che conosce i suoi sentimenti e la sua vita – un profeta e dà inizio alla sua conversione, riconosce i propri peccati e infine accoglie la dottrina vera: adorare il Padre in spirito e verità. È come dice Dante: «La sete natural che mai non sazia se non con l’acqua onde la femminetta samaritana domandò la grazia» (Purg., canto XXI, 1).
Quando recitiamo il Padre Nostro, diciamo:
«Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra».
Accettiamo la volontà di Dio e riconosciamo che tutto, nel cielo come nella terra, dipende dalla volontà di Dio, come lo stesso Figlio di Dio ha detto nella preghiera del Getsemani. Spesso noi pensiamo che Dio ci salva «dalla» sofferenza e «dalla» morte. Non è così. Dio ci salva «nella» sofferenza e ci salva «nella» morte. Noi ci salviamo solo se accettiamo la sofferenza – che è la condivisione della Croce di Nostro Signore – e se consideriamo la morte per quello che è.
Diceva Sant’Agostino:
«Se ami la vita e temi la morte, questo stesso timore della morte è come un inverno quotidiano».
Abbiamo eliminato Dio nella nostra società e così abbiamo pensato di eliminare anche il dolore e la morte. Consideriamo dolore e morte cose che non ci appartengono, che non dobbiamo e che ci rifiutiamo di vivere, perché non accettiamo la nostra realtà di peccatori, di uomini e donne fragili, marchiati dal peccato originale dei nostri progenitori, che devono lottare – su questa terra – per non rimanere avvinghiati alle grinfie, fatte di lusinghe, di seduzioni, di paure, del principe di questo mondo.
Per tentate di dare una risposta a quello che ci chiede Dio attraverso le prove che ci propone «occorre credere, occorre destare la fede. Il resto è un turbarsi inutilmente», afferma Sant’Agostino. Si domandava: «perché ci turbiamo inutilmente?». Faceva l’esempio degli apostoli che erano sulla barca vicino a Gesù, che dormiva: «soffiavano furiosi i venti, s’innalzavano i marosi e la nave andava a picco». Perché, chiedeva? «Perché Gesù dormiva. Così è anche di te. Quando in questo mondo infuriano le tempeste delle tentazioni, il tuo cuore si turba, quasi fosse la tua barca. Perché questo, se non perché dorme la tua fede?».
Il problema della nostra vita è solo uno e se lo risolviamo nulla ci può turbare.
Il problema è la fede. È quanta fede abbiamo.
Scriveva ancora Sant’Agostino:
«Desta dunque Cristo dentro il tuo cuore, sia vigile la tua fede, sia tranquilla la tua coscienza, e la tua nave sarà liberata. Convinciti che chi ti ha fatto le promesse è verace. Non te l’ha mostrato, perché non è ancora tempo di mostrartelo; ma ti ha già mostrato parecchie cose. Ti ha promesso il suo Cristo e te l’ha dato; ti ha promesso la sua resurrezione e te l’ha data; ti ha promesso il suo Vangelo e te l’ha dato; ti ha promesso la sua Chiesa, assicurandoti che si sarebbe diffusa per tutta la terra, e te l’ha data; ti ha predetto che nel mondo ti avrebbero circondato molte tribolazioni e calamità, e te ne ha dato la dimostrazione. Quante sono le cose che rimangono? Ecco, è adempiuto ciò che era stato promesso, è adempiuto ciò che era stato predetto. E sei in dubbio che non venga quel che rimane? Dovresti temere se non vedessi [realizzato] ciò che era stato predetto. Ci sono le guerre, c’è la fame, ci sono le tribolazioni. Un regno è sopra un altro regno, ci sono terremoti, innumerevoli calamità, abbondanza di scandali, il raffreddamento della carità, la diffusione dell’iniquità. Leggi tutte queste cose: sono state predette. Leggi, constata come tutte le cose che vedi erano state predette. Enumerando le cose già avvenute, credi che avrai da vedere anche quel che non è ancora successo. Quanto poi a te, vedendo come Dio ti fa toccare con mano le cose che ha predette, come fai a non credere che egli ti darà anche quello che ti ha promesso? Lì devi cominciare a credere, dove è cominciato il tuo turbamento».
Non c’è forse in queste parole la risposta alle inquietudini che ci assalgono nella nostra vita, al nostro essere ancorati a questo mondo, al nostro non vedere al di là di esso? Al fatto che in un istante, questo mondo – che tanto difendiamo, per il quale ci adoperiamo, per il quale chiediamo protezione – può non esserci più? Che cos’è la nostra vita su questa terra se non un soffio? Ad un certo punto, ci fermiamo, la vediamo scorrere – se Dio ci concede il tempo di scorrerla – e ci accorgiamo che non esiste più.
E allora, concludeva Sant’Agostino:
«Se siamo alla fine del mondo, dobbiamo esulare dal mondo, non amare il mondo. Ecco, il mondo è sconvolto, e lo si ama! Che faresti se il mondo fosse tranquillo? Come ti attaccheresti al mondo, se fosse bello, quando ti attacchi ad esso, pur così brutto? Come coglieresti i suoi fiori, se non ritrai la mano dal coglierne le spine? Non vuoi lasciare il mondo, ma il mondo lascia te, anche se vuoi seguirlo. Ebbene, o carissimi, mondiamo il nostro cuore e non perdiamo la sopportazione; appropriamoci della sapienza e teniamoci saldi nella continenza. La fatica passa, viene il riposo. Passano le false delizie; viene il bene che l’anima fedele ha [costantemente] desiderato, il bene verso il quale sospira con ardore ogni pellegrino in questo mondo. Viene la patria beata, la patria celeste, la patria popolata dagli angeli, la patria dove nessun cittadino muore, dove non può entrare alcun nemico, la patria dove per l’eternità Dio ti sarà amico e dove non temerai alcun avversario».
Questo sarà il nostro mondo. Su questa terra, viviamo la divisione, che ha origine dal peccato dei nostri progenitori. Come scrive sant’Agostino nel «De civitate Dei», è una divisione tra due amori:
«Di questi due amori l’uno è puro, l’altro impuro; l’uno sociale, l’altro privato; l’uno sollecito nel servire al bene comune in vista della città celeste, l’altro pronto a subordinare anche il bene comune al proprio potere in vista di una dominazione arrogante; l’uno è sottomesso a Dio, l’altro è nemico di Dio; tranquillo l’uno, turbolento l’altro; pacifico l’uno, l’altro litigioso; amichevole l’uno, l’altro invidioso; l’uno che vuole per il prossimo ciò che vuole per sé, l’altro che vuole sottomettere il prossimo a se stesso; l’uno che governa il prossimo per l’utilità del prossimo, l’altro per il proprio interesse. Questi due amori si manifestarono dapprima tra gli angeli: l’uno nei buoni, l’altro nei cattivi, e segnarono la distinzione tra le due città fondate nel genere umano sotto l’ammirabile ed ineffabile provvidenza di Dio, che governa ed ordina tutto ciò che è creato da lui: e cioè la città dei giusti l’una, la città dei cattivi l’altra. Inoltre, mentre queste due città sono mescolate in un certo senso nel tempo, si svolge la vita presente finché non saranno separate nell’ultimo giudizio: l’una per raggiungere la vita eterna in compagnia con gli angeli buoni sotto il proprio re, l’altra per essere mandata nel fuoco eterno con il suo re in compagnia degli angeli cattivi».
E’ questa la situazione in cui ci troviamo oggi.
Questa generazione corrotta dal peccato non può divenire consapevole – da sola – che l’«andrà tutto bene» non dipende da lei. Dipende da Dio.
E’ a Dio che ci dobbiamo rivolgere. Dobbiamo guardare a Lui, non al numero dei contagiati, ai cimiteri che non contengono il numero delle bare, alle strade deserte, alla nostra disperazione, alla nostra paura, alla nostra incapacità di vivere la solitudine, di pensare, di pregare, di amare la Verità, di amare i nostri nemici, di coltivare l’amore e di praticare la carità.
Dobbiamo guardare a Dio perchè noi siamo dei poveri disperati.
Dobbiamo guardare a Dio perchè anche noi, ciascuno di noi è colpevole, in quanto macchiato dal peccato originale.
Dobbiamo espiare quel peccato.
Sappiamo che c’è chi – come l’Arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, ma non è il solo – ritiene sia un «ragionare da pagani» definire quello che sta avvenendo come un castigo di Dio, ma sappiamo anche che la Sacra Scrittura, la Tradizione e il Magistero di sempre della Chiesa insegnano che i castighi di Dio esistono.
Per un momento, mettiamo da parte la nostra convinzione. Accettiamo che possa sembrare temeraria. Chiediamo soltanto:
Che cosa disse 103 anni fa la Santa Vergine Maria ai tre pastorelli di Fatima?
Disse che l’umanità aveva bisogno di ritrovare Suo Figlio e, quindi, la fede. Un messaggio semplice e, insieme, grandioso. Universale. Parole che non escludono nessuno e che riguardano tutti. Credenti e atei, gnostici e peccatori che domandano di Dio. La Santa Vergine Maria testimonia la misericordia e la bontà di Dio nei confronti di ciascun essere umano, ma chiede la conversione, che passa attraverso il Suo Cuore immacolato.
«Penitenza, penitenza, penitenza», chiede la Santa Vergine Maria, a La Salette, a Fatima, alle Tre Fontane.
Nei «Fratelli Karamazov», Dmitrij, uno dei protagonisti, viene arrestato e condannato per l’omicidio del proprio padre. Quell’omicidio non l’ha commesso, ma Dmitrij, dopo un cammino di conversione, accetta la pena, perché è ora consapevole di essere comunque responsabile di quell’omicidio, come di tutti mali, di tutte le iniquità, di tutte le ingiustizie, di tutti i peccati contro Dio che vengono commessi sulla Terra.
Fëdor Dostoevskij fa dire a Dmitrij queste parole rivolte ai suoi cari:
«Ciascuno di noi è senza dubbio colpevole per tutti e per tutto ciò che accade sulla terra, non solo per la comune colpa del genere umano, ma ciascuno personalmente è colpevole per tutta l’umanità e per ogni altro singolo uomo sulla terra».
Che cosa ha fatto l’umanità per esaudire la richiesta di purificazione che è provenuta direttamente dalle parole della Madre di Dio?
«La Vergine Addolorata», scrive san Pio da Pietrelcina il primo luglio 1915, «ci ottenga dal suo santissimo Figliuolo di farci penetrare sempre più nel mistero della croce ed inebriarci con lei dei patimenti di Gesù. La santissima Vergine ci ottenga l’amore alla croce, ai patimenti, ai dolori. Sforziamoci di tenere sempre dietro a questa benedetta Madre, di camminare sempre appresso ad ella. Associamoci sempre a questa sì cara Madre: usciamo con essa appresso Gesù fuori di Gerusalemme».
La Madonna, su questa terra, ci vuole forti, ostinati, credenti. Combattivi e non remissivi. Martiri, se necessario, perché consapevoli che, come faceva dire Sofocle ad Antigone, «nessun re di questa terra può violare la norma superiore, quella non scritta».
Affidiamoci, quindi, alla sua intercessione, a quel Suo Cuore Immacolato nel quale Dio ha depositato il Suo amore, per attraversare le tribolazioni di questa valle di lacrime e disperazione e vivere, attraverso di lei, grazie alla consolazione e alla speranza che solo lei ci sa dare e alla sovrabbondanza di bene che sola può sconfiggere il male, la Resurrezione e la bellezza del Paradiso.
«Forse, un giorno, nella nostra vita», diceva Don Oreste Benzi, «il pentimento più grande non sarà quello di aver fatto il male, ma sarà quello di avere omesso il bene».
I soldati di Gesù Cristo non sono scomparsi. Sono per la maggior parte silenti, intimiditi da una cultura che li vuole soggiogati, tiepidi, insignificanti agli occhi di Dio. La loro è una responsabilità grande, perché Colui che fa nuove tutte le cose, alla fine, li giudicherà e «la sorte dei vili sarà lo stagno ardente di fuoco e di zolfo, cioè la seconda morte, come per i rinnegati, i depravati, gli omicidi, i fornicatori, i venefici, gli idolatri e tutti i bugiardi» (Apocalisse 21, 7-8).
C’è una sola mèta per coloro che su questa terra vogliono combattere: la Città santa, Gerusalemme.
«In mezzo alla piazza della città e sulle due rive del fiume sta un boschetto di alberi della vita, che fruttificano dodici volte, una volta al mese. Le foglie degli alberi servono a guarire le nazioni. Non ci sarà più nulla di maledetto. In lei sarà il trono di Dio, e dell’Agnello: i suoi servi lo adoreranno, vedranno la sua faccia e porteranno in fronte il nome di lui. Non vi sarà più notte; non hanno più bisogno né della luce d’una lampada, né di quella del sole, perché il Signore Iddio splenderà su di loro e regneranno nei secoli dei secoli» (Apocalisse, 22, 2-5).
Quel tempo dove non vi sarà più notte è vicino, dice l’Angelo, ma per viverlo il giusto deve continuare a combattere nel bene. La sua attesa non può essere inerte, perché l’ingiusto ha ancora spazio per commettere ingiustizie e non convertirsi. Qualunque sia la condotta dell’uomo, il piano di Dio non si arresterà. Stare dalla parte del bene o del male corrisponde ad una libera scelta dell’uomo, che riceverà la ricompensa secondo la sua opera.
Mentre il mondo vive la morte collettiva, mentre il mondo, così marcio, non nomina mai Dio in quest’ora che sembra estrema, dobbiamo liberarci dai nostri peccati, chiedere perdono, convertirci, gridare dai balconi delle nostre case le parole:
«Dio, noi siamo indegni del tuo perdono, ma aiutaci, nel nome di Nostro Signore Gesù Cristo, Re del Cielo e della Terra e della Santissima Vergine Maria, Madre Sua e della Chiesa, Mediatrice e Corredentrice dell’umanità».
Dobbiamo chiedere a Dio che illumini i cuori e le menti dei Pastori a cui Gesù ha affidato il Suo gregge, che da tanti, troppi anni, hanno tradito il mandato ricevuto, che è immodificabile e immutabile per volontà divina, trasformando la Chiesa da Lui fondata in una «spelonca di ladri» della Parola del Verbo.
Deve accadere un miracolo. E lo dobbiamo chiedere, con umiltà, a Colei che schiaccerà definitivamente la testa del serpente e che si espresse con queste parole nella casa di Zaccaria, perchè interceda presso Suo Figlio:
«L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente e Santo è il suo nome; di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote. Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva detto ai nostri padri, per Abramo e la sua discendenza, per sempre».
«Maria è tutta la ragione della mia speranza» si legge nel «Discorso dell’acquedotto» di San Bernardo, che aggiungeva: «Veneriamo Maria con tutto l’impeto del nostro cuore, dei nostri affetti, dei nostri desideri. Così vuole Colui che stabilì che noi ricevessimo tutto per mezzo di Maria».
Che il Suo Magnificat ci aiuti a comprendere che per la nostra salvezza – nell’ora che viviamo e fino alla fine dei tempi – è necessario chiedere il perdono di Dio, per vedere Lei vittoriosa, come La mostra nel meraviglioso dipinto che è a corredo di questo scritto, intitolato la «Madonna dei Palafranieri», Michelangelo Merisi detto il Caravaggio.
Chiedendo scusa ai lettori per la lunghezza di questo scritto – che certamente ha aiutato me e spero, con umiltà, aiuti altri – trascrivo le parole che oggi ho ascoltato di un laico, Presidente dello Stato del Paraguay, Mario Abdo Benítez, nei confronti delle quali mi inchino:
«Molte famiglie sentono incertezza. E c’è paura. Tutti l’abbiamo sentita in questo momento. Non pensate di essere soli. Questa è una cosa completamente nuova e sconosciuta da tutti. Non solo nel Paraguay, ma nel mondo intero. Però, ho fede in Dio, nel Suo potere e nella Sua misericordia. Ed è in questo momento che bramiamo di più la sua presenza nella nostra vita. La Parola dice (Isaia, cap. 41, versetto 10):
Non temere, perché io sono con te;
non smarrirti, perché io sono il tuo Dio.
Ti rendo forte e ti vengo in aiuto
e ti sostengo con la destra della mia giustizia.
Così dice Dio. Ed io Gli credo. Perchè credo che con la Sua grazia ne usciremo vittoriosi».
Mi sento cittadino del Paraguay, di questo piccolo-grande Stato che, grazie al Suo giovane Presidente – uomo giusto – insegna al mondo come comportarsi in quest’ora che è divenuta estrema.